RACCONTICOMPLEANNO – a cura di “TOTO”

 

OGGI NACQUE GUY DE MAUPASSANT – 5 agosto 1850

Henry-René-Albert-Guy de Maupassant nasce presso il Castello di Miromesnil, vicino a Dieppe (Francia).

Ricordato come uno dei fondatori del racconto moderno, Maupassant è stato influenzato in modo forte da Zola e Flaubert, nonché dalla filosofia di Schopenhauer. I suoi racconti come i suoi romanzi presentano un’ampia denuncia della società borghese, della sua stupidità, della sua cupidigia e della sua crudeltà. Gli uomini sono spesso descritti come vere e proprie bestie e l’amore si riduce per loro ad una funzione puramente fisica. Questo forte pessimismo pervade tutta l’opera di Maupassant.

Le sue novelle si contraddistinguono per uno stile breve e sintetico e per il modo ingegnoso in cui le singole tematiche vengono sviluppate. Alcuni suoi racconti rientrano inoltre nel genere horror.

UN MILIONE

Di Guy De Maupassant

 

 

Era una modesta famigliola di impiegati. Il marito, impiegato al ministero, corretto e meticoloso, eseguiva rigorosamente il suo dovere. Si chiamava Léopold Bonnin. Era un giovane ometto che pensava sempre quanto si doveva pensare. Era stato educato con principi religiosi, ma era diventato meno credente da quando la Repubblica1 tendeva a separare la Chiesa dallo Stato. Proclamava a voce alta nei corridoi del ministero: – Sono religioso, religiosissimo anzi, ma religioso nei confronti di Dio, non sono certo clericale -. Pretendeva innanzi tutto di essere una persona onesta, e lo proclamava battendosi il petto. Era, infatti, una persona onesta nel significato più terra terra della parola. Arrivava in orario, andava via in orario, non bighellonava, e si mostrava sempre molto rigido sulle «questioni di denaro». Aveva sposato la figliola di un suo collega povero, la sorella del quale possedeva però un milione, acquistato con un matrimonio d’amore. Costei non aveva avuto figli, con sua grande desolazione, e perciò avrebbe potuto lasciare il patrimonio soltanto alla nipote. Questa eredità era la costante preoccupazione della famiglia. Gravava sulla casa, gravava sull’intero ministero; tutti sapevano che «i Bonnin avrebbero ereditato un milione». Nemmeno i due giovani coniugi avevano figlioli, ma non ci tenevano, contenti di vivere nella loro limitata e placida onestà. Il loro appartamento era pulito, ordinato, tranquillo, sonnolento, perché essi erano calmi e moderati in tutto; e pensavano che un bambino avrebbe turbato la loro vita, la loro intimità e la loro tranquillità. Non avrebbero fatto nulla per rimanere senza discendenza, ma poiché il cielo non aveva mandato loro figlioli, tanto meglio. La zia del milione si rammaricava della loro sterilità e dava loro infiniti consigli per farla cessare. A suo tempo, anche lei aveva tentato, senza successo, con mille sistemi suggeriti da amici o da chiromanti e, da quando aveva superato l’età di procreare, le erano stati indicati altri mille sistemi che riteneva infallibili, e lei si rammaricava di non poterne fare una personale esperienza e si accaniva a rivelarli ai nipoti, ripetendo loro continuamente: – E allora, avete provato quel che vi ho raccomandato l’altro giorno? Morì. I due giovani ne furono felici, di quella gioia nascosta, che si vela a sé e agli altri con il lutto. La coscienza si drappeggia di nero, ma l’anima freme di allegria. Seppero che un testamento era stato depositato presso un notaio: vi si precipitarono appena usciti dalla chiesa. La zia, fedele all’idea fissa di tutta la sua vita, aveva lasciato il milione al loro primo figliolo, con l’usufrutto ai genitori fino «alla loro morte. Se i giovani coniugi non avessero avuti eredi entro tre anni, l’eredità sarebbe andata ai poveri. Rimasero annientati, atterriti. Il marito si ammalò e, per otto giorni, non andò in ufficio. Poi, quando si fu ristabilito, si ripromise energicamente di diventare padre. Per sei mesi, vi si accanì tanto da diventare l’ombra di se stesso. Si ricordava, ora, di tutti i suggerimenti della zia, e cominciò a metterli in pratica coscienziosamente, ma invano. La sua disperata volontà gli dava una forza fittizia, che rischiò di riuscirgli fatale. Era minato dall’anemia; si temeva la tisi. Un medico che aveva consultato lo spaventò e lo fece rientrare nella sua pacifica esistenza, più tranquilla persino di una volta, con una dieta ricostituente. Allegre voci correvano per il ministero, dove tutti sapevano della delusione del testamento, e in tutti gli uffici si scherzava sul famoso «colpo del milione». Alcuni davano a Bonnin consigli scherzosi; altri, impertinenti, si offrivano di adempiere la scoraggiante clausola. C’era un giovanottone soprattutto, che aveva fama di essere un inveterato donnaiolo, famoso per i suoi successi con le donne in tutti gli uffici, che lo punzecchiava con continue allusioni, con frasi piccanti, vantandosi di poterlo fare ereditare in venti minuti. Un giorno, Léopold Bonnin si offese e, alzandosi di scatto con la penna dietro l’orecchio, gli lanciò questa ingiuria: – Signore, siete un infame, se non avessi rispetto di me stesso vi sputerei in faccia. Si scambiarono i testimoni, cosa che mise il ministero sottosopra per tre giorni. Nei corridoi non si vedevano che costoro, intenti a scambiarsi processi verbali e opinioni sull’affare. Finalmente, i quattro delegati adottarono all’unanimità una certa stesura a chiusura dell’incidente, e i due interessati l’accettarono, si salutarono con gravità davanti al capufficio e si strinsero la mano, balbettando parole di scusa. Durante il mese seguente, si salutarono con studiata cerimonia, con premura di persone ben educate, come avversari che si fossero trovati faccia a faccia. Poi, un giorno, essendosi scontrati all’angolo di un corridoio, Bonnin chiese con nobile sollecitudine:- Non vi ho mica fatto male? – L’altro rispose: – Per niente, signore. Da allora, credettero conveniente scambiare qualche parola, incontrandosi. A poco a poco, entrarono in maggiore confidenza, si abituarono l’uno all’altro, si capirono, cominciarono a stimarsi, come persone che prima non si erano ben capite e finirono col diventare inseparabili. Ma Léopold era infelice in casa. Sua moglie lo punzecchiava con sgradevoli allusioni, lo torturava con continui sottintesi. E il tempo passava; era già trascorso un anno dalla morte della zia. L’eredità pareva perduta. Madame Bonnin ogni volta che si metteva a tavola diceva: – Non c’è gran che per cena, certo non sarebbe così se fossimo ricchi. Quando Léopold usciva per recarsi in ufficio, Madame Bonnin diceva, porgendogli il bastone: — Se avessimo cinquantamila lire di rendita non avresti bisogno di andare a sgobbare laggiù, signor scribacchino. Quando Madame Bonnin doveva uscire, nei giorni di pioggia, mormorava: – Se avessimo una carrozza non sarei costretta ad inzaccherarmi con un tempo simile. Insomma, ad ogni momento, in ogni occasione, sembrava rimproverare al marito qualcosa di vergognoso, addossando a lui tutta la colpa, facendolo solo responsabile della perdita di quel patrimonio. Esasperato, Léopold la condusse da un celebre medico che, dopo una lunga visita, non si pronunciò, dichiarando che non vedeva nulla di anormale; che era un caso piuttosto frequente; che accade ai corpi come ai caratteri; che dopo aver visto tante coppie separarsi per incompatibilità di carattere, non c’era da stupirsi nel vederne altre sterili per incompatibilità fìsica. La visita costò quaranta franchi. Passò un anno, tra i due coniugi era guerra dichiarata, una guerra senza quartiere, accanita, una specie di terribile odio. E Madame Bonnin non faceva che ripetere: – È veramente una grossa disgrazia perdere un patrimonio per aver sposato un imbecille! – oppure: – E dire che se mi fosse capitato un altro uomo, a quest’ora avrei cinquantamila lire di rendita! – oppure: – C’è della gente che è sempre molesta nella vita e che rovina tutto. Le cene, le serate soprattutto erano intollerabili. Non sapendo cosa fare, Léopold, una sera, temendo che a casa lo aspettasse una tremenda scenata, si portò dietro l’amico Frédéric Morel, quello col quale aveva rischiato di battersi in duello. In breve Morel diventò l’amico di casa, il consigliere ascoltato dei due sposi. Mancavano soltanto sei mesi allo scadere dell’ultimo termine, dopo il quale il milione sarebbe andato ai poveri; e, a poco a poco, Léopold cambiava di modi con la moglie e diventava a sua volta aggressivo, la punzecchiava spesso con oscure insinuazioni, parlava misteriosamente di mogli di impiegati che avevano saputo creare la posizione dei loro mariti. Raccontava, ogni tanto, storie di sorprendenti promozioni, concesse inaspettatamente ad impiegatucci. – Ravinot, per esempio, che cinque anni fa era ancora impiegato fuori ruolo è stato nominato sottocapo -. Madame Bonnin commentava: – Certo, tu non sapresti fare altrettanto. Allora Léopold scrollava le spalle: – Non ha certo più meriti di un altro. Ha soltanto una moglie intelligente, che è riuscita a piacere al capodivisione, e ne ottiene tutto quel che vuole. Nella vita, bisogna sapersi arrangiare, per non essere gabbati dalle circostanze. Cosa voleva dire esattamente? Che cosa capì lei? Che cosa accadde? Ognuno di loro aveva un calendario sul quale segnavano i giorni che li separavano dalla fatale scadenza; e, ad ogni settimana, si sentivano invadere dalla follia, da una rabbia cieca, da una esasperazione, mista ad una tale disperazione che sarebbero stati capaci di commettere un delitto, se fosse stato necessario. Ma ecco che una mattina, Madame Bonnin, con gli occhi lucidi e il volto radioso posò le mani sulle spalle del marito e, guardandolo profondamente, con uno sguardo fisso e felice, gli disse sottovoce: – Credo di essere incinta -. Léopold ebbe un tale tuffo al cuore che per poco non cadde all’indietro; poi afferrò bruscamente la moglie tra le braccia, la baciò con furia, se la fece sedere sulle ginocchia, la strinse ancora come una tura adorata e, vinto dalla commozione, pianse e singhiozzò. Dopo due mesi, non c’erano più dubbi. Léopold la portò da un medico per fare constatare le sue condizioni, e portò il certificato ottenuto dal notaio depositario del testamento. Il legale dichiarò che dal momento che il bambino, nato o nascituro, esisteva, avrebbe soprassieduto all’esecuzione testamentaria fino alla fine della gravidanza. Nacque un maschietto, che chiamarono Dieudonné, in ricordo di quel che si faceva nelle case reali. Diventarono ricchi. Ora, una sera, mentre Bonnin stava entrando in casa, dove doveva venire a cena l’amico Frédéric Morel, la moglie gli disse con semplicità: – Proprio ora ho pregato il nostro amico Frédéric di non rimettere più piede in casa: si è comportato male con me. Léopold la guardò per un attimo con un sorriso riconoscente che gli brillava negli occhi, poi aprì le braccia; lei vi si gettò, e rimasero abbracciati per parecchio tempo, come due bravi sposini molto affettuosi, molto uniti, molto onesti. E bisogna sentire Madame Bonnin quando parla delle donne che hanno mancato per amore, e di quelle che un grande slancio del cuore ha gettato nell’adulterio