Racconto di Doris Bellomusto

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Era da giorni che quella canzone le si era insinuata fra la testa e la pelle e le concedeva il brivido di un ricordo dolceamaro, ben nascosto nel lago del suo cuore. Cantava sussurrando, quasi avesse paura di dare voce a quel suo piccolo tormento, così vicino a un amore mancato, ma non abbastanza sfrontato e compiuto per esserlo fino in fondo. Maria aveva un nome limpido, nome sacro e familiare, ma era stanca di aderire al cliché della moglie e della madre appagata, voleva sconfinare, vedere se stessa oltre il perimetro della quotidiana prosa. Era un desiderio naturale, quel che era innaturale era il bisogno di mordere i suoi giorni con rabbia, attraversare il suo tempo col coltello fra i denti e aggredire chiunque la sfiorasse con parole o sguardi. Era diventata nel tempo arida come sabbia, ruvida e aspra nei pensieri e negli atteggiamenti, sempre scostanti, freddi, pungenti e indifferenti.
Si era guadagnata tradimenti e distanza, noia e apatia. Aveva cercato la sua rivincita fra le vetrine delle boutique, fra borse e rossetti, scarpe e orpelli di ogni fattura. Poi un giorno aveva sentito la paura salirle nella gola insieme a un rigurgito che non aveva saputo trattenere, si era scoperta bulimica, era sprofondata in un altro girone dell’inferno, altri ne aveva già conosciuti e attraversati.
Nel suo girone infernale Maria camminava fiera e lenta, senza apparente sgomento. Il suo malessere si manifestava puntuale prima e dopo ogni pasto con ingordigia e rabbia, consumava le cose con brama e poi le spuntava insieme al magma dei suoi mancati desideri. Cambiava il suo corpo, ma lei non si guardava nello specchio, sbirciava il suo riflesso furtivamente, guardandosi attraverso i vetri delle vetrine del centro commerciale dove lavorava partime con un contratto che aveva firmato senza darsi la briga di leggerlo per intero. Svolgeva il suo incarico ruotando di settimana in settimana fra i reparti, sistemava la merce sugli scaffali in modo da rendere appetibili gli acquisti più improbabili. Lavorava con impegno cieco per non pensare a niente e arrivava alla fine del turno con gli occhi stanchi e i piedi gonfi.
Nella monotonia dei suoi giorni sempre uguali le accadde un giorno di innamorarsi.
Si trattò di un amore banale, consumato in fretta fra i sedili dell’auto e anonime stanze d’albergo. Forse non era amore, forse era una distrazione, accadde in effetti che si distraesse dai suoi guai, che ricominciò a nutrirsi con pazienza e dimenticò di rigurgitare rabbia. Non conosceva niente del suo amore, un finto nome e nessuno indirizzo. Si era abbandonata al gioco che non conosce impegno e questo gioco, per altri squallido, a lei aveva restituito un corpo.
Di questo amore banale e irrisorio a lei restava quella canzone ascoltata insieme, distrattamente, quando fra gli scaffali non sapevano ancora che si potesse trovare in dono il gioco rotto di un amore infantile.
Ma l’amore è grembo e placenta, nutre, ma non sazia.
Maria non imparò ad amarsi, dimenticò se stessa e cominciò a dimagrire per cancellare del suo amore immaturo ogni traccia possibile.
Le venne in aiuto una collega, giovane e precaria quanto lei, si offrì di accompagnarla da un dottore, lo fece senza parole, semplicemente dandole fra le mani un biglietto da visita, uno di quei biglietti zeppi di informazioni: nome, cognome, specializzazione, indirizzo, numero di telefono e foto.

In quel minuscolo rettangolo di cartoncino aveva ritrovato dettagli mai chiesti a quell’uomo buono che per un po’ l’aveva distratta da se stessa e le era stato accanto con la selvaggia innocenza dei bambini, censurando ogni minima tentazione di dare consistenza reale a un gioco d’amore che non voleva mescolarsi alla realtà.
Conosceva bene il Dottore Vittorio Salviati, ma non avrebbe avuto senso affidarsi alle cure di un uomo che era stato per lei la cura, senza che ne conoscesse il dolore.

Non rinunciò, però, all’idea di curare il suo cuore affamato e denutrito e si affidò a se stessa, cercò da sé un centro specializzato in disturbi del comportamento alimentare, abbandonò ogni diffidente paura e si concesse ogni giorno di andare oltre se stessa, sconfinare, spiare oltre la siepe delle sue certezze.

 

Era da giorni che quella canzone le si era insinuata fra la testa e la pelle, adesso lo sapeva anche lei che la vita è un brivido che vola via, che è tutto un equilibrio sopra la follia, il tempo e la fame le avevano insegnato a dare un nome ai suoi sentimenti. Non cantava più sussurrando, ma a gola spiegata, cantava per sé e per il suo piccolo coraggio di digitare quel numero e concedersi la gioia semplice di un amore senza pretese.

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