Racconto di Luca Battisti

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Qualche decennio fa anche i paesi più piccoli avevano ogni estate le loro giornate di attrazione.

Così anche in mezzo all’Appennino, dove la sorte mi ha fatto nascere, era arrivata la tenda del circo. Sarebbe rimasta soltanto una notte e il richiamo era grandissimo: nessuna famiglia avrebbe rinunciato a pagliacci e saltimbanchi e a quanto altro la nostra fantasia aveva stipato in quel tendone.

Avevano sistemato delle lunghe assi di legno come seduta e le file preparate erano fitte. Quando arrivai con i miei genitori lo spettacolo doveva ancora cominciare. Anzi: eravamo in grande anticipo ma arrivare prima non sarebbe stato tempo perso.

«C’è il fotografo. Luca, vai anche tu a fare la foto», mi incoraggiò mia mamma.

Infatti era previsto un intrattenimento per il pubblico prima che iniziasse lo spettacolo. Un fotografo passava tra i banchi a ritrarre i bambini. Le foto erano scattate con una polaroid, venivano quindi sviluppate e stampate in tempo quasi reale. Dopo lo scatto erano sistemate su un grosso pannello di compensato e chi voleva poteva acquistarle. Era un affare redditizio.

Fotografare bambini nell’irrequietezza precedente uno spettacolo circense non era un’impresa facile; proprio per quello avevano pensato a un trucco.

Tra le panche, assieme al fotografo, passava lei, l’attrazione: la scimmia. La scimmia era un piccolo scimpanzé agghindato come un umano. Lo scimpanzé indossava un maglione bianco con sopra una salopette a quadretti rossi. Le zampe anteriori e posteriori erano scoperte e ne rivelavano la ferinità. Nel complesso aveva un aspetto sbarazzino e innaturale.

La scimmia si sedeva vicino ai bambini che facevano la fila per sfiorarla. Allungava una zampa, li abbracciava e sapeva sorridere all’obiettivo. Era ributtante.

«Luca, vai anche tu», insisteva mia madre.

«Non voglio. Ho paura».

«È solo una scimmietta. Vai a fare la foto. È questione di un attimo».

Infatti era così. La scimmia adesso aveva trovato il suo posto. Era lei a restare ferma mentre i bambini, a rotazione, si sedevano vicino a lei. Il tempo della foto, l’attesa della stampa ed era già il turno di un nuovo bambino.

Indossavo una giacca della tuta e i pantaloni corti. Ai piedi quelli che mia mamma chiamava gli scarponcelli di camoscio. Quando mi trovai vicino alla scimmia ricordo che il fotografo mi invitò a sorridere. La scimmia lo fece, io quando sentii la sua zampa scivolarmi giù per il braccio non ce la feci. Mi sentivo teso e a disagio.

Vidi che il fotografo estrasse la stampa dalla polaroid e iniziò a sventolarla per farla asciugare prima di appuntarla al pannello di compensato.

La vicinanza della scimmia mi innervosiva. Per fortuna si era alzata. Era scesa dal suo scranno poggiando sulle zampe anteriori, poi aveva saltellato arzilla verso il pannello con le foto.

«Stai fermo ancora per un po’», mi bloccò il fotografo mentre io seguivo con occhio attento i movimenti dello scimpanzé timoroso che facesse qualcosa di imprevisto.

Non capii perché il fotografo volesse continuare a ritrarmi. Io automaticamente cercai lo sguardo per l’approvazione di mia madre. Lo intercettai. Mi fece cenno di seguire quello che il fotografo mi chiedeva.

Il bambino con i pantaloni rossi che prima era seduto alla mia sinistra, passò alla mia destra. Lo conoscevo: si chiamava Tommaso ed aveva due anni più di me.

«Adesso abbraccialo e sorridi», mi disse il fotografo scattando.

Tommaso si alzò e fu il turno di una bambina di sedersi al mio fianco. Maria. Conoscevo anche lei.

«Abbracciala», disse il fotografo scattando.

Altri bambini si alternavano al mio fianco mentre la scimmia, vicina al pannello delle foto, mi guardava e sembrava sogghignare scoprendo denti e gengive contro di me.

Non capivo perché fossi al centro di tutto mentre nuove foto con nuovi bambini mi venivano scattate.

«Quando torna la scimmia?», chiesi.

«Cerca di sorridere, altrimenti non le compra nessuno le foto», sentii mia madre suggerire alle mie spalle.

«Sistemati più vicino agli altri bambini, non avere paura», mi incoraggiava il fotografo mentre adesso era chiaro che lo scimpanzé mi guardava con insistenza e mi sbeffeggiava con quella sua bocca oscena.

Mi alzai di scatto.

«Basta», urlai, «io non sono una scimmia!».

«Non sei tu a decidere chi è la scimmia», mi rispose il fotografo.

«Stai buono, Luca, sono solo foto», aggiunse mia madre mentre altri bambini si sedevano vicino a me guardandomi con stupore e sfiorandomi curiosi le spalle.

Disorientato guardai la scimmia. Vidi che si stava frugando nelle tasche della salopette. Con un gesto ostentato tirò fuori delle monete e alzò la zampa indicando uno scatto sul pannello delle foto in vendita.

Quando la prese tra le mani mi guardò con intenzione e sogghignò fissandomi per un’ultima volta, prima di indirizzarsi verso l’uscita del tendone.

Tra tutte le foto in cui compariva, si era presa quella con me.