Racconto di Sam Zanobi

(prima pubblicazione – 1 giugno 2020)

 

La sofferenza inizia subito, non ho sigarette né medicinali di supporto.

Non so come raggiungere i miei contatti, almeno per un po’ di roba da fumare. Devo uscire ma da tre giorni ci bombardano dicendo che non bisogna mettere il muso fuori casa. Rachele è sparita, forse nella notte.

Giro per la casa cercando quello che può aver lasciato. Ma le sostanze che servono a me non ci sono. La televisione è accesa e manda una voce continua che forma il tappeto sonoro del quale non posso più fare a meno. Una bottiglia di grappa con un goccio di liquore in fondo. La secco in due sorsi. Lo stomaco strilla ma ci sono abituato. La fame non la sento più, solo morsi di protesta qualsiasi cosa mandi giù.

Mi basta piegarmi per il tempo necessario e poi passa. Dovrei uscire per procurarmi qualcosa. Cerco dei soldi e ne trovo in un cassetto dove mi ha portato automaticamente la mano.

Alzo gli occhi e la finestra mi informa che è buio. Quanto buio. Cerco il cellulare che è ancora acceso, sono le undici. No, nessun negozio è aperto, ma ci saranno in giro un sacco di balordi per trovare cose fuori commercio.

Metto i soldi in tasca e penso a cosa devo fare per uscire, c’è qualcosa da fare prima di aprire la porta. Le chiavi! Comincio a cercarle affidando all’istinto i movimenti, la testa non può far niente e non riesce a legare le idee per riagganciare la memoria del recentissimo passato. Fuori la via è deserta, me lo aspettavo.

Mi avvio verso la piazza centrale di questa pessima periferia.

Nel lato opposto al mio vedo un’auto dei carabinieri e quindi non mi addentro. Non ci sarà nessuna attività. Faccio un giro dell’isolato per arrivare nella via dietro alla piazza dove vedo passeggiare ombre che temono l’incontro con le divise. Il fresco in faccia mi ha un po’ svegliato, fortuna.

Mi avvicino ad un ceffo che mi guarda male. Ma rimane fermo e quindi può essere quello che penso. Mi fa cenno di fermarmi, già il metro di sicurezza. Vuoi del fumo? Annuisco e tiro fuori i soldi che ho in tasca. Lui guarda che in giro non ci sia nessuno poi afferra i soldi, li conta con velocità impressionante e li mette in tasca. prende un pacchetto di stagnola e me lo porge. Faccio dei movimenti col volto come per ringraziare e salutare. Afferro e mi giro per tornare a casa.

Vado guardingo perché dal niente potrebbe uscire un’auto della pula che mi identificherebbe subito come tossico e sarei finito. O forse no, passerei questo periodo di reclusione volontaria in un posto dove sarebbero assicurati i pasti. Senza Rachele non sarà facile continuare una vita decorosa nel mio sudicio appartamento.

Non potrò andare a fare i lavoretti che mi trova l’assistente sociale e dovrò farmi bastare la pensione di invalidità che spunta nella mia carta postale ogni mese. Una presa al muro è dedicata al caricabatterie del telefono.

Lo collego per non farlo morire. La tv manda ancora chiacchiere e musica mentre mi preparo la miscela di tabacco e cacchina nera. Fumo assaporando ogni respiro che alcolici non ce ne sono e non ne potrò comprare per ore.

Guardo il buio oltre la finestra senza soffermarmi sul disordine della stanza. Ci sono palazzi ancora con le luci accese e il bello della città è che qualcuno sveglio lo trovi sempre. Mi sento meglio e il dolore alle viscere sembra scomparire, almeno per qualche minuto. Di nuovo sul divano e a portata di mano trovo sigarette e un accendino.

Mi sommergo nel fumo fino a far scomparire i contorni. Le immagini della tv cercano di trovare un varco nella nebbia, ma è forte e potente.

Ho dormito tutto il giorno, come posso avere ancora sonno? Invece è possibile e chiudendo gli occhi per il troppo fumo mi trovo addormentato.

Poi mi risveglio ed entro in quello stato di alternanza di sonno e veglia. Tok Tok, bussano alla porta. Non ho la forza di aprire.

Non ho forza. Provo a tirare su un braccio per fare leva per alzare il corpo senza aprire gli occhi. La vita fa male, ho dolori dappertutto.

Dovessi morire chissene frega. Sarebbe la fine di tormenti che si trascinano da troppi anni. La sopravvivenza è una condanna da scontare quotidianamente con enormi sforzi. Ma ancora il sonno vince sui muscoli e sulla carne, la testa si annebbia e finisce in sogni inutili e noiosi.

Rachele, penso e forse lo dico. Rachele, ancora. Ma sono solo come sempre.

Socchiudo gli occhi e intorno c’è luce, la televisione è accesa, il telefono accanto a me, muto. Però mi dice che sono le tre del pomeriggio, ho dormito un casino. Annuso per sentire se un caffè mi aspetta, ma lo devo preparare io. Il lavandino è pieno di piatti e pentole che urlano fino a puzzare. Ma il mio interesse è la caffettiera che con movimenti automatici è rapidamente sul fuoco.

Mi ci vuole una tazza gigante di bevanda nera. Sul tavolo una confezione di merendine aperte. Ne afferro una e me la mangio a grandi morsi facendo emergere l’animale che non riesco più ad essere. Poi seduto a bere il caffè che è l’unica bevanda che adoro oltre gli alcolici. Di nuovo sul divano ma con una canna in bocca. Fumacchio con i piedi incrociati sul bracciolo e un braccio sotto la testa.

Vado in un altro mondo per non pensare, per annullare la sofferenza. Per non leggere i miei proponimenti di ragazzo che mi vedono un fallito totale. Ma la vita è così, un viaggio tra mitologie inafferrabili che ti lasciano a terra mentre continuano il loro andare per sentieri altri, attraversando i destini di persone dalla fortuna a volte ridente e a volte mordente.

La voglia di vivere la dovrei cercare ma non ne ho la forza e spero di non cadere in una tale indigenza da dover provvedere a fingermi un omino dei nostri tempi che se la cava e protesta perché non ha abbastanza per andare avanti.

Survive tonite… la musica entra nelle mie orecchie rimbombando nei sentimenti che mi divorano. You’ll fallow me down, è quello che tu pensavi e che io voglio fare, ma non ad ogni costo. Se annientiamo le nostre vite come possiamo amarci.

I nostri corpi non devono cedere all’oblio che cerchi. Andiamo giù e abbandoniamoci, ma amiamoci.

Tu scompari invece nei tuoi sogni e non ci sei più. Io sono sola e sola non ci posso stare accanto a te. Ore di sonno ti portano via da me, forse viaggi in posti meravigliosi e io non ci sono.

Non potevo continuare e di mattina presto sono uscita per tornare a casa di mia zia. Lei ha una stanza dove posso fare la quarantena. Mia mamma poi non mi parla molto, grida su di me senza tentare di capire la mia vita. Tenta di aggiustare il bambolotto rotto che doveva durare anni e anni nello stesso modo, intatto. Invece ha cominciato presto a deteriorarsi e con la pandemia si è ritirato con un altro bambolotto dell’altro sesso.

Sono maggiorenne e fuori garanzia, la fabbrica non può intervenire.

Ma mia madre non si rassegna e forse soffre e cerca gli errori che ha commesso.

Dalla zia non viene, apparentemente non vuole vedermi. Io ascolto la musica e fremo. Di dolore e passione. I fastidi di un’infanzia felice li scrollo dalle spalle mentre mi pento di essere uscita senza una parola. Ma lui dormiva, ed avrebbe dormito a lungo, forse tutto il giorno, senza di me. Perciò dormi e io mi rinchiudo in questa stanza a sperare di tornare i giorni in cui ci sballavamo ridendo e dormivamo appiccicati per risvegliarci ogni tanto con gli occhi lucidi e innamorati.

Poi la pandemia, la reclusione, la sempre più forte mancanza di voglia di vivere. Io lo cercavo anche solo per un contatto fisico minimo e lui era un ghiacciolo temprato dalla morte. Lo sguardo sembrava rivolgersi al suo interno, incapace di mettere a fuoco la persona davanti.

Eppure lo amo, amo ogni gesto di quell’uomo e mi basterebbe mi dicesse: Hey baby, vieni accanto a me. Con il sorriso spento di un uomo tradito dal destino, di qualcuno che riconosce solo te come presenza amica e nessun altro.

La notte lascia il passo al mattino. Dalla finestra arriva l’odore di piante e qualche fiore, ma dopo cede il passo agli scarichi dei camion delle consegne mattutine e al rumore di moto che si sgolano anche se non si può uscire. Per strada le persone si contano facilmente.

C’è chi ancora lavora, ma la maggior parte della gente è a casa a frantumarsi i maroni.

In questa stanza mi trovo bene. Ormai non ho più un luogo veramente mio e posso benissimo fare a meno dei poster giovanili e dei libri adolescenziali. L’esperienza di convivenza rappresenta una rottura col passato e indietro non si torna. Mi giro nel letto anche se praticamente non ho mai dormito.

Ho voglia di alzarmi ed andare da lui, scuoterlo e farlo tornare come all’inizio: strafatto ma simpatico. Troppo alto per me mi metteva in soggezione, dovevo alzami sulle punte per vederne gli occhi altrimenti socchiusi e mai mostrati agli altri. Il suo modo di infischiarsene di chiunque mi rendeva fiera di essere sua amica, prima, amante, poi. Il ricordo di quei primi momenti mi prende per il collo e mi tira su fino ad alzarmi. mi dò una lavata poi esco. Ho una mascherina, che indosso per non essere guardata male.

Lo zaino rappresenta il contenitore per la spesa che non devo fare. O forse lui ha bisogno di qualcosa, ma prima devo vedere in che condizioni è lui e anche la casa.

Mentre mi avvicino alla sua zona mi mancano le forze e la decisione con cui mi muovevo si muta in un lento passeggiare. Lui non cambia, lui non mi ama, ha solo bisogno di me. Mi fermo e lascio che dal centro delle budella spunti una malinconia che mi spinge a lacrimare, non so se per me o per lui. So che devo vederlo.

Il portone del suo palazzo è sempre aperto e alla porta non c’è campanello.

Mi appoggio con tutto il corpo e la testa alla porta. Sento provenire il suono della televisione e so che non vuol dire niente, è sempre accesa. Non mi resta che bussare. Tok Tok, lievemente con tutto l’amore possibile.

Nessun movimento all’interno, nessuna emozione. Tok Tok, più forte. Il movimento è respinto da un destino di rifiuto continuo della forza che porto con me, e tornando indietro mi provoca struggimento inconsolabile.

Rimango attaccata come una ventosa disposta ad attendere ogni mossa e ogni insulto. Ma non si muove niente e nessuno apre.

Il volto gira lentamente sconfitto e dirige il corpo verso le scale per scendere da quell’avventura che sembra finita per sempre. Un po’ di vento per strada nasconde quell’unica gigantesca lacrima che solca il mio volto mentre mi dirigo in quella stanza che non significa nulla, che non è vita, una vita che forse non avrò più.