Racconto di Cristina Biolcati

(16 febbraio 2021)

 

 

 

Domenico amava la poesia, era come quei brutti orchi nei libri di fiabe, che però riuscivano ad ammagliare le fate. Il suo animo era puro, buono, nonostante la montagna d’uomo. 

Ripeteva spesso, fra sé, una frase di Rimbaud: “Una sera ho preso sulle ginocchia la Bellezza. E l’ho trovata amara.”. Chi gli stava accanto si scansava, però poi era meravigliato dal suo sapere, quasi se la cultura e la curiosità dovessero andare di pari passo con l’avvenenza fisica.

Dorina, sua sorella, lo mandava ogni giorno all’uscita di scuola a riprendere Saro, il figlio che lei aveva avuto e che, a causa del lavoro alla fabbrica, non poteva curare.

Immaginava chissà quali sciagure per quel ragazzino, se non ci fosse stato lo zio là fuori, pronto a riaccompagnarlo a casa, portandogli anche lo zaino pesante. E Menico (così era chiamato dagli amici) rincarava la dose, facendole presente che sui giornali comparivano sempre brutte notizie su bambini rapiti, per esagerare, persino vittime di killer seriali. 

Dorina, esile e piacente, al contrario del fratello era di ragionamento semplice e credeva a ogni cosa lui le dicesse. Menico agiva così perché adorava ritrovarsi davanti al cancello della scuola elementare, in compagnia delle altre mamme. Nello specifico, amava osservare Anna, senza essere visto, anche se nel suo caso era tutto un dire. Quasi due metri per centodieci chili di cristiano!

Anna non era bella, almeno, non nel senso canonico del termine. Ciò che la rendeva particolare agli occhi di Domenico era la sensualità dei suoi gesti. Mani che accarezzavano l’aria; unghie laccate che luccicavano al sole; una voce roca che ogni tanto lei tentava di schiarire, quasi fosse sempre sul punto di rivelare un segreto. Come spostava i capelli, una matassa bionda domata solo dal vento. Aveva un seno prosperoso, sì, che in estate metteva in evidenza con camicette scollate, e che in mancanza del reggiseno sfidava senza colpo subire la forza di gravità. La vita sottile, il culo rotondo fasciato ad arte dai jeans.

Ogni tanto Anna rivolgeva la parola a Domenico, gli lanciava delle battute. Era simpatica, ma evidentemente non immaginava il tipo di turbamento che causava in lui. Che di notte la sognava, e faceva anche altro.

Tanto da smettere di leggere le poesie e arrivare a una conclusione. Non c’era spazio per persone come lui, nel mondo dei belli! Non c’era il modo.

Un giorno alla classe di Saro venne affidato un compito: una ricerca sui vulcani. Per combinazione fu messo in coppia col figlio di Anna, che lo invitò a casa sua. Si sapeva che Dorina era al lavoro e non se ne sarebbe potuta occupare, mente invece la casalinga Anna poteva offrire loro persino una bella merenda.

Domenico si sentiva inquieto. Suo era l’incarico di andare a riprendere il nipote, proprio presso quella donna che da tempo gli turbava il sonno. Gente ricca che abitava in una villa al limitare del bosco. Saro aveva approfittato, appena uscito da scuola, del passaggio in macchina di Anna, per cui lei gli aveva offerto pure il pranzo. Non si sarebbero mai sdebitati abbastanza, lui e sua sorella, in quell’orrenda catapecchia, col cibo precotto e i panini a ogni buona occasione.

«Vieni verso le cinque, zio» gli aveva detto Saro.

E Domenico si era incamminato. Temeva di ritardare, invece era in anticipo.

La passeggiata fra i boschi era servita a distendergli i nervi. Forse era andato un po’ troppo veloce.

Ed ecco la casa, su due piani, i muri delimitati da vetrate. Al tavolo del soggiorno si intravedevano i due bambini, seduti. Stavano discutendo con allegria, c’erano dei libri aperti. Un cane sonnecchiava in una cesta, poco distante. Doveva essere vecchio oppure sordo, perché non si era neanche accorto della sua presenza all’esterno.

Mancava ancora mezz’ora buona e il nipote si sarebbe arrabbiato. Già lo sentiva. Si era detto alle diciassette, zio.

Così Domenico pensò che avrebbe potuto tornare sui suoi passi e fare un altro giro. 

Fu in quel momento che Anna si affacciò alla finestra del piano di sopra. Era nuda. I seni grossi sfiorarono il davanzale, mentre si sporgeva per mettere un fermo alle imposte e guardare giù.

Lo vide. Indugiò oltre il tempo necessario. Il suo sorriso lascivo voleva intendere qualcosa. Le labbra si dischiusero, flautò parole incomprensibili.

Domenico non sapeva dove nascondersi. Avrebbe dovuto provare vergogna, invece rilevò solo un senso di fastidio. Perché lei non rientrava? Perché restava lì, con le tette di fuori, davanti a lui, quasi fosse una cosa pianificata?

Domenico dal principio non se lo seppe spiegare. La testa pareva scoppiargli.

Come avrebbe fatto, d’ora in poi, ad affrontare lo sguardo di lei?

Bisognava che ci andasse Dorina, a riprendere quel figlio!

Ma la delusione ebbe il sopravvento. E vennero anche le lacrime. 

Quando suo nipote uscì, mezz’ora dopo, era allegro. Parlò per tutto il tempo di quella casa, spettacolare. E del cibo buono che gli aveva offerto la mamma del suo amico.

Menico lo tenne per mano, era la sola cosa che potesse fare.

Ormai un macigno nel petto aveva preso il posto di qualunque altro sentire. E per una volta, non provò pena per se stesso.