Racconto di Giovanni Boncristiani

(15 dicembre 2020)

 

 

Arrivati!
Dopo molte ore di auto e sigarette e birra, finalmente eravamo a Praga.

Era una calda e afosa domenica di luglio del 1988, l’aria era rovente, il solo refrigerio veniva dalle poche nubi che in quota sembravano rincorrersi e gettavano al suolo ombre refrigeranti che rapidamente ci coprivano e altrettanto velocemente scomparivano.

Non conoscendo la città ci dirigemmo, senza un reale motivo, alla stazione ferroviaria. Di solito è li che ci si dirige, chissà perché, forse perché rappresenta il luogo delle partenze e degli arrivi, e noi eravamo appena arrivati.

All’interno di quello che sembrava un hangar, l’aria era irrespirabile, complice il caldo e lo smog, tanto che pareva di essere in una autorimessa. Ai rumori, quelli tipici di una stazione, si mischiavano il vocio delle persone, in idiomi incomprensibili, a quello degli altoparlanti che emettevano intermittenti e ripetuti annunci anch’essi incomprensibili.

C’erano molte persone variegate nell’aspetto; zingari (o “ziganchi” come venivano chiamati) sempre rumorosi, e poi nordafricani, europei dell’est e molti volti asiatici.

Seguendo le poche indicazioni che avevamo ricevuto, da quello che sembrava essere un ferroviere, arrivammo nella Piazza centrale, l’ombelico della città. Stanchi, ci sedemmo su una panchina a fianco di una donna non più giovanissima.

La donna leggermente corpulenta indossava un cappello visibilmente piccolo per lei; dalla gonna di colore rosso purpureo, le fuoriuscivano le tozze gambe munite di calze nere a rete con grandi maglie malamente rammendate. Emanava uno sgradevole fragranza, non è che puzzasse, era più un odore di sudore misto a quello di un profumo, evidentemente economico. Le scarpe, marroni, erano consunte e leggermente spanciate nella parte centrale; risaltavano, come due occhi, le grosse borchie dorate sui lati. Con un fazzolettino bianco di stoffa, la donna, si asciugava periodicamente il sudore che le stillava dalla fronte. La giacca, stretta, di colore ocra, la faceva sembrare un frutto maturo.

Le chiedemmo dove potevamo trovare un ristoro, senza neppure guardaci bofonchiò qualcosa e tornò in silenzio. Ci incamminammo verso il centro della Piazza e, mentre abbandonavamo panchina e signora udivamo quest’ultima emettere a bassa voce una sequela di parole non si sa se rivolte a noi oppure a un qualche immaginario personaggio.

Proseguendo per alcune decine di metri scorgemmo un locale che assomigliava ad un bar. All’interno c’erano pochissime persone, la luce bassa consentì di ispezionarne l’interno solo quando gli occhi si erano abituati a quel quasi buio. In un angolo, vicino alla finestra, c’era un anziano signore che sottovoce indottrinava una giovane ragazza, sul tavolo alcuni libri e quaderni, sembrava tenesse una qualche lezione. Dopo una breve incertezza sul da farsi ci avvicinammo al tavolo dell’unico altro cliente, l’uomo aveva di fronte a se una grossa birra e con le mani giocherellava con un pacchetto di sigarette all’interno del quale trovava rifugio un piccolo accendino.

Chiedemmo se potevamo sederci al suo tavolo, con un cenno quasi impercettibile acconsentì. Ordinammo delle birre anche noi e provammo a comunicare. Con nostra sorpresa scoprimmo che parlava un buon italiano.

Il nostro nuovo amico, dalle mani gonfie e rugose evidentemente provate dal lavoro, non era però molto in vena di chiacchiere, tanto che, poco dopo, emise un poderoso rutto e, barcollando, si congedò da noi lasciandoci, non prima di aver pronunciato, come un editto, la seguente frase: “qui noi solo abbiamo tre buone cose: il tennis, la birra e le donne”.

Quel primo giorno capimmo che gli abitanti di questo paese erano quantomeno dotati di una buona dose di autoironia.

Allora non lo sapevamo ma, dopo pochi mesi, nulla sarebbe stato più come prima…