RACCONTICOMPLEANNO – a cura di “TOTO”

Vasco Pratolini

19 ottobre del 1913 – 12 gennaio 1991, Roma

 

 

Vasco Pratolini nasce a Firenze il 19 ottobre del 1913. La sua famiglia è di estrazione operaia e il piccolo Vasco perde la madre quando ha solo cinque anni; finisce così per trascorrere la sua infanzia con i nonni materni. Una volta tornato dal fronte, il padre si risposa, ma Vasco non riesce ad inserirsi nella nuova famiglia. Compie studi irregolari e ben presto è costretto ad andare a lavorare. Lavora come operaio in una bottega di tipografi, ma anche come cameriere, venditore ambulante e rappresentate.

Questi anni, apparentemente sterili, saranno fondamentali per il suo apprendistato letterario: gli daranno infatti la possibilità di osservare la vita di quelle persone comuni che poi diventeranno le protagoniste dei suoi romanzi. A diciotto anni lascia il lavoro e si dedica ad una intensa preparazione da autodidatta.

Negli anni compresi tra il 1935 e il 1937 gli viene diagnosticata la tubercolosi e viene ricoverato in sanatorio. Tornato a Firenze nel 1937 comincia a frequentare la casa del pittore Ottone Rosai che lo spinge a scrivere di politica e letteratura sulla rivista “Il Bargello”. Fonda con l’amico poeta Alfonso Gatto la rivista “Campo di Marte”, e viene in contatto con Elio Vittorini che lo induce a focalizzarsi più sulla letteratura che sulla politica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MESTIERE DI VAGABONDO

Racconto di Vasco Pratolini

 

Il vagabondo è un uomo che non ha avuto il coraggio del suo vero nome: ma anche i poeti, oggi ancora, non hanno un nome…
Quando fu il giorno in cui dovetti pronunciarmi sul mestiere, a mio padre che me lo chiedeva, risposi:
Voglio fare il venditore di semi!
Mio padre disse che il venditore di semi non era un mestiere: mestiere era fare il falegname, il meccanico o il fornaio. Siccome io insistevo, mio padre aggiunse:
Il venditore di semi è un mestiere da vagabondo!
Avrei voluto rispondergli che non sapevo arrendermi all’idea di trascorrere la giornata al chiuso di un laboratorio o di un’officina.
Temevo le grosse mani di operaio di mio padre. Mi colpivano tra collo e cervelletto: Egli già si stava arrabbiando; rimproverava mia madre di avermi dato una cattiva educazione.
Questo figliolo ha l’anima del vagabondo – le diceva – Non ne caveremo nulla di buono!
Perciò tacqui le mie ragioni.
Fino a quel giorno ero stato un ragazzo felice. Le strade, l’aria aperta dei prati, alla periferia, e il greto del fiume, tutto quello che può accadere a un ragazzo libero nella strada e sui prati, lungo il fiume, aveva riempito le mie giornate. Queste erano le mie ragioni. E all’idea di un’occupazione che vincolasse la libertà di cui godevo, mi ero dichiarato per quella che immediatamente mi era apparsa come la più congeniale!
Avevo detto «venditore di semi» perché fu l’immagine che per prima mi soccorse, con mio padre davanti e le sue grosse mani posate sul tavolo di cucina. In realtà i venditori ambulanti avevano volti e voci precisi; nel corso delle mie quotidiane avventure ritrovavo la loro presenza; sembrava che anch’essi, per gioco, percorressero la città frugandola nei suoi recessi, creature libere, immedesimate nel loro grido di richiamo.
Il venditore era un uomo piccolo e magro, col colletto della camicia sempre chiuso e una cravatta rossa, cenciosa, un berretto con la visiera aderente alla testa come quello di un fantino. Recava sotto il braccio una cesta rettangolare, di vimini, piena a metà di semi abbrustoliti: vi troneggiava un misurino di legno, a forma di portauova. Si annuncia, col grido: «Il semaio, eccolo!» lungamente strascicando le vocali e trattenendo la voce, come per una stizza improvvisa, sulla doppia consonante. Indugiava ripetendo all’intorno il suo grido, alzando gli occhi al cielo: il tono della sua voce era di preghiera. Si sedeva a volte sulle panchine dei giardini, sui marciapiedi all’ingresso dei cinematografi, deponeva la cesta per terra, come insonnolito. D’un tratto si rialzava, camminava svelto prima di ritrovare la sua naturale andatura, e il suo grido. Si chiamava Cecco, e di soprannome Misirizzi.
I semi di Misirizzi fanno faville!  -gridava.
Ma alla stagione propizia l’amico dei ragazzi diventava il venditore di lupini molli e salati che batteva il lungofiume sbucando d’Oltrarno.
Dall’altro capo del ponte si udiva la sua voce.
Ogni lupino c’è un cavurrino!
Salàaati!
Procedeva a passi fitti e precipitosi, pareva dovesse cadere da un momento all’altro, trascinato in avanti dal peso del catino che sorreggeva col braccio sinistro, poggiato sul fianco: aveva, nella destra, una sediolina da campagna. Il catino era verde nell’interno, color mattone di fuori; dentro i lupini erano d’oro sotto il sole, umidi e come pescati nel fiume.
Il venditore aveva i capelli bianchi, il naso paonazzo; indossava pantaloni e gilè, e sopra un grembiule di bucato.
Aveva in testa un cappello di paglia. Andava avanti precipitosamente, col peso del catino che lo piegava in due, fermandosi soltanto se richiesto.
Allora deponeva il catino sulla sediolina, cavava dalla tasca del grembiule cartoccetti e pizzichi di sale che cospargeva sui lupini.
Il suo gesto era franco, parco, come per un rito. Affannava sempre. Sembrava un’anima in pena che percorresse a passi fitti e precipitosi la città dispensando l’oro dei suoi lupini come benedizioni.
Come spiegare questo a mio padre, come fargli capire la bellezza di quei mestieri all’aria aperta, la letizia che risplendeva negli occhi di Cecco, nell’affrettata andatura del venditore di lupini, il godimento che essi procuravano ai passanti, per pochi soldi, e pochi lupini? Con essi, il venditore di ciambelle dolci e, mago, l’uomo delle girandole di carta, degli aquiloni, che diceva:
Alla Fiera delle Meraviglie! Al Paradiso dei Fanciulli! Sciò, sciò, guardare e non toccare!
Come dire questo a mio padre?
Egli era un uomo che aveva delle grosse mani di operaio, leggeva il suo giornale, la sua bluse era unta di grasso; passava le sue giornate al chiuso di un’officina; i suoi capelli erano castani, fuligginosi. La domenica spariva come andasse di nuovo a lavorare, provvisorio nel suo vestito grigio. Io gli volevo bene, non soltanto lo temevo: mi piaceva la sua forza, il suo cipiglio. Ero un ragazzo di dodici anni e avrei voluto dirgli:
Sai, babbo, c’è il sole quando stai in officina. L’acqua del fiume è verde, i lupini d’oro, i semi di Misirizzi fanno faville. lo non posso fare a meno di tutto questo, della mia libertà.
Fu mio padre, invece, a dirmi:
Devi imparare un mestiere. Lavorare sul serio, distrae. S’impara più che un mestiere, qualcosa d’altro, di forte. Un venditore di semi, quando sarai grande, parrà anche a te un vagabondo, un uomo che non ha avuto il coraggio del suo vero nome.
Ecco, babbo, io sono grande, e non ancora i poeti hanno un nome.