Racconto di Maria Letizia Pecoraro

(Pubblicazione 20 ottobre 2019)

 

 

 

Piattaforma di decollo per viaggi dalle mete ardite, lontanissime – irraggiungibili o messe in stand by in attesa di tempi migliori: per me, sua maestà il letto.

È il luogo del dormire, giacché raramente mi riesce di farlo in sedi alternative – forse potrebbe candidarsi il divano, ma occorre registrare alcune piccole difficoltà: la cervicale che urla dopo alcuni tentativi di adeguarsi al bracciolo, la lunghezza del mio corpo che non sempre collima con quella del mio ordinario tre posti, e poi una serie di piccole innominabili difficoltà che bocciano la candidatura del divano a luogo deputato al buon dormire.

Vuoi mettere l’ebbrezza di tracollare lunghi distesi sopra il divin letto? La testa, gremita da voci, affonda nel cuscino che odora della te di qualche ora prima, solcato dalle scie di lacrime scese indomite, mentre una dura lotta s’ingaggiava tra la pura, che esige lo strucco e la sciattona pigra che cede alla dolcezza del sonno. Già, perché poi, in fondo, di cedimento trattasi, giacché su quel giaciglio ci si era posati solo un momento, giusto quel tempo per resettare il corpo dalla giornata attraversata, prima di affrontarne l’ultimo tratto.

Ma, si sa, le tentazioni sono sempre in agguato e il sonno fuori orario pure.

Dicevo del letto, dunque, della sua poliedricità rispetto alla funzione primaria, che pure resta di tutto rispetto.

Io adoro il mio letto quando ancora si porta impressa la forma del corpo: la scia di ciò che ha ospitato lo rende uno di famiglia, il confidente speciale a cui raccontare i pensieri, le opinabili delusioni quotidiane.

Sulla linea diagonale che allude al dominio della superficie, si allunga la spina dorsale costretta a reggere fiera il peso del giorno e, vuotato il sacco e lasciate andare le zavorre che trattengono il volo, si libra alto il condizionale del tempo dei sogni.

Partono da quelle lenzuola sgualcite, i viaggi più belli mai intrapresi, quelli consumati sul filo sottile del reale che “potrebbe essere se solo si fosse”, quelle meravigliose macchinazioni astratte che riavvolgono vite vissute e ne fanno mille storie alternative, come fossero sceneggiature senza finale.

Dipanati sul letto, certi racconti possono prendere strade diverse e se, arrivati alla meta, ci si accorge di avere in bocca un retrogusto un po’ amaro, si può decidere di buttar giù un altro percorso, si può credere che svoltando un po’ prima, la visuale sia migliore e i pericoli del tutto evitabili.

Il letto, potenza sublime del letto, culla di sogni, di amori, di desideri brucianti e glaciali distanze; testimone di trasmigrazioni notturne, di fiabe raccontate con voce cullante; arbitro neutro di contrattazioni feroci, ufficiale solenne che sigla rese e scambio di doni.

Nel letto si leggono e si scrivono storie, si corre a perdifiato con i piedi del cuore, si trema d’angoscia nel freddo di scenari futuri, si piangono piano dolori profondi, riparati dal buio di notti senza sonno.

Io mi guardo dai letti che registrano più ore linde che scarmigliate: sarà di sicuro un letto perfetto ma quanta vita avrà perso, scivolata via dalle lenzuola ben tese.

Il letto è la poesia di un racconto letto e riletto, scritto e riscritto per cercarne la versione migliore.