Racconto di Cesare Sandoni

(19 dicembre 2020)

 

 

La sveglia è per le 7.45. Ho in testa il programma dei tempi, per essere su verso le 9. È chiaramente tardi andare a funghi alle 9, ma non posso pretendere di più, anche per i ragazzi è una vacanza. In più in albergo l’orario colazione scatta alle 8 e sono obbligato ad escludere le prime ore dell’alba.

I ragazzi non si svegliano. In più Alice, la piccola, è un po’ nervosa per il fatto che la sveglia mi suona inutilmente, mentre lei si sveglia bruscamente.

-Papi, spegni quella sveglia, voglio dormire!-

È stata chiara ed eseguo l’ordine. Mi preparo e li lascio dormire ancora un po’. Stamattina sono proprio due statue, cocciuti come muli. Non c’è verso di svegliarli. Pure io mi innervosisco un po’ e preparo lo zaino, riempio le borracce.

Alla buon ora delle 8.30 i primi timidi segnali di vita vera. Lentamente calano giù i piedi e con una lentezza da lumaca vecchia fanno il giro nel bagno. Li scuoto a parole, ma i tempi di reazione restano gli stessi. Il lieve nervosismo persiste, ho in mente solo i funghi e mi tengo tutto dentro. È un processo di elaborazione mentale che mi fa essere più per me stesso che per loro. Come mio padre, quando ci preparavamo per andare a funghi.

Dopo colazione verso le 9.20 partiamo. Francesco, il maggiore, carica lo zaino nel bagagliaio. Tutto questo tempo sprecato è una lieve incrinatura sul programma. Mi sento adrenalinico pensando al bosco, ho fretta di arrivare e me ne sto sulle mie. Dico qualche parola per rompere il momento, come mio padre alla partenza per funghi.

Pochi chilometri fuori Moena, lasciamo la provinciale e attacchiamo la salita sterrata dei 3,5 km con un dislivello di 500 metri. Sono un po’ teso per via della macchina sottosforzo a regimi alti e a marce basse, la strada strappa senza fare sconti. I ragazzi mi sentono e cercano di tranquillizzarmi, dicendomi che andrà tutto bene.

Al parcheggio è tutto in regola, ma continuo a dedicarmi a loro per automatismi, non con la tenerezza di un papà, perché ho fretta di salire nel bosco. Un po’ come mio papà quando andavamo a funghi.

Dopo una camminata di venti minuti lungo il sentiero grande, eccoci
arrivati.

Si pronuncia Colvére. Io sbaglio sempre da una vita. Per me è Cólvere. Di fatto è una piccola baita ad uso foresteria per chi é di passaggio e vuole dedicarsi una sosta rilassante. La baita si piazza ai bordi di una radura prativa circondata da boschi in saliscendi. Fuori dalla baita lo spazio é recintato e si contano tre tavoli di legno, una
fontana e una griglia. Tutt’attorno i miei boschi. I boschi di una vita.

Qui, per più di 40 anni, sono andato con mio padre a funghi. Mi ha insegnato i pini giusti, i ripiani buoni, le pendici più fruttuose, i massi più generosi. Ripenso ai tanti momenti condivisi con lui, come quando si inginocchiava davanti ad un porcino, si faceva il segno della croce, prima di staccarlo dalla terra. Me ne sto in disparte e fatico a riassestarmi su livelli meno distaccati. I miei figli mi camminano vicino in silenzio.

In corso c’è una gara sul numero di porcini raccolti nell’intera vacanza. Io sono a 6, Francesco a 2, Alice a 2. Entriamo nel bosco alle dieci un quarto e in appena cinque minuti, da 6 salgo a 8. Francesco ci tiene da morire, gli scoccia un sacco perdere. Si innervosisce. Gli faccio segno di girare attorno a quel pino. Glielo indico col bastone come faceva il mio papà. Lui va e non trova nulla. Mentre io, girando appena più sotto, salgo a 9. Francesco dice che non è possibile. Cerco di calmarlo e mi dico che al prossimo faccio finta di non vedere il porcino per fare in modo che sia lui a trovarlo. Come il mio papà con me, non ne ho le prove, ma ne sono certo, anzi certissimo.

Alice è sempre dietro di me qualche metro, fa ruotate il bastone di mio padre imitando Mary Poppins. Ci tiene anche lei, ma non come Francesco. È un po’ distratta, è la sua natura e la guido un po’. Un po’ come faceva mio padre con me.

Arrivo a 10 con un bel porcino incastrato sotto un sasso. Mi ero ripromesso di farlo trovare a Francesco, ma appena visto l’ho annunciato in modo perentorio. L’adrenalina confonde le idee. Francesco è sempre più demotivato. Lo vedo barcollare. È in quella fase in cui sa di aver perso per cui ha scarsa determinazione.

Arriviamo sotto la piana della Colvère e gli dico di fare i pini dello stradello. Io resto un po’ indietro perché non mi va di oltrepassare il filo con la corrente che recinta le mucche al pascolo. Lo vedo andare scalciando un sasso con molta noia e poi non lo vedo più. Alice mi è appresso e ogni tanto mi chiama su un fungo sospetto. Non torno mai indietro a controllare perché sennò farei il doppio del cammino. Le dico di controllare se il gambo è grosso, come mi diceva mio padre.

Francesco fa un urlo impressionante.

-Un porcino!-

Mi chiama a sé.

-Vieni papi a vedere. Corri!-

Io sono già salito e gli sto a una cinquantina di metri. Gli dico di portarmelo, come faceva mio padre con me. È un bel porcino grosso da seccare, è lì da diversi giorni e nel cesto ci sta benissimo. Gli do una pacca sulla spalla, mi complimento con lui con un’enfasi un po’ studiata e funzionale. Esattamente come faceva il mio papà. Perché so che un figlio ama i complimenti di un padre. Specie quelli che lo mettono in competizione con il padre. Ama il complimento da adulto.

Saliamo verso la buca della Colvère. La salita porta bene perché anche Alice ne trova uno. È contenta e me la stringo fra le braccia. Poco dopo Francesco trova il suo secondo porcino di giornata. Saliamo ancora più contenti, ora che ognuno di noi ha mosso il punteggio. Io sono felice perché ho i miei figli a fianco, contenti ed allegri ed io sono la loro guida. Come mio padre che cambiava sorriso se le cose si mettevano per il verso giusto.

Poco sotto la buca, dove insiste un’area prativa con rade alberature di abeti, a distanza di 10 metri, imperioso, all’ombra di una frasca, ecco il re più bello di oggi. Lo indico col bastone, Francesco che era passato 20 secondi prima gli corre incontro, Alice saltella molto più leggera di Mary Poppins. Scatto la foto di rito. È proprio bello, come quello illustrato su un libro. Fungo cartolina, lo chiamo. Mi chino in ginocchio, come faceva mio padre. Lo raccolgo facendo leva da sotto con il coltellino di mio padre.

Siamo proprio contenti. L’armonia gioiosa brilla sulle punte degli aghi di pino. Sono un po’ stanco, ora cammino stanco, passo dopo passo lento e poi ancora lento, stando attento a non inciampare, a non cadere. Come mio padre.

Alla piana li avverto di alzare le frasche dei pini che si affacciano sulla zona a pascolo. Non mi danno credito, perché è faticoso piegarsi ed alzare le frasche. Al primo pino lo faccio io. Ed è proprio lì, bello come un fungo appena visto. Ha un gambo enorme rispetto alla testa. È fresco di mattina. Si convincono e iniziano ad alzare le frasche. Io sorrido e li vedo uguali a me quando mio padre mi diceva di fare una cosa ed io non gli davo retta per poi ricredermi.

Oggi mi sento uguale a mio papà, stanco come mio papà, sapiente come lui, esperto del bosco come lui, strategico come lui. E i miei figli sono come me quando io ero il bambino del mio papà.

Scendiamo oltre la piana e Francesco vuole tornare. È stanco pure lui. E mentre lo dice becca il suo terzo proprio sotto i miei occhi. È molto soddisfatto, mi chiede più volte se è bello. Io gli dico di sì. Lui insiste. Io gli dico che è bellissimo. Come il mio papà che ad ogni insistenza aumentava l’intensità del dire per raggiungere la mia massima soddisfazione. Scendiamo per completare il giro e ritrovarci al punto di partenza.

Poco prima di uscire sul sentiero grande, io mi faccio l’ultima escursione un po’ fuori mano e dico loro di aspettarmi alla curva sotto. Come mio padre che mi diceva di uscire dal bosco e che sarebbe arrivato poco dopo.

Li raggiungo 10 minuti più tardi. Sono proprio stanco e ci avviamo alla luce bianca dello strada sterrata in direzione del parcheggio. Sono stanco, cammino stanco, passo dopo passo, lento e poi ancora più lento. Mi faccio trasportare dalla discesa. Francesco mi sta a fianco e commenta il buon cesto. Come me quando ero al fianco di mio padre.

-Bello papi, è un bel cesto. Quale è il più bello?-

Si parla a ruota libera come un passo che scende e si lascia trasportare lungo la discesa. Uguale a tanti anni fa. Ero esattamente come Francesco. Sono esattamente come era mio padre. Alice é fuori inquadratura, resta indietro e col bastone di mio padre fa finta di
essere Mary Poppins.

Al parcheggio parte l’aggiornamento alla seconda di campionato. Io 15, Francesco 5, Alice 3. Come mio padre sono certo che vincerò il campionato di raccolta funghi porcini. Lui lo vinse dal 1976 sino al 2016. Per 40 anni. Ora tocca a me. Fino a quando passerò il testimone con gli stessi gesti, le stesse dinamiche, le stesse intenzioni, le stesse storie a chi ora come una spugna impara e assimila senza rendersene conto. Come in un viaggio che si ripete e che è lo stesso per tutti.

Imparerai ad amare nello stesso modo tutto ciò che adesso ti ama.