Racconto di Michele Vaccaro

 

In quel periodo ero solito fare lunghe passeggiate nel verde stinto del bosco di pini, teatro d’infanzia nella città natale. Mi piaceva immergere lo sguardo nel transito di nuvole gonfie che andavano a compenetrarsi nei tramonti impastati di luce lattiginosa tipica del novembre di quei posti. Le quotidiane escursioni in solitaria mi regalavano un senso di pace, una serenità d’animo che non provavo mai in città, prigioniero di obblighi e doveri. Ero tornato da alcuni giorni per sistemare delle faccende familiari che non potevano essere prorogate. Rivedere gli zii e la miriade di cugini da un lato mi faceva piacere, dall’altro mi procurava un moto di fastidio perché avrei dovuto sciorinare spiegazioni sui perché e sui percome della mia vita privata ma, soprattutto, a uso delle vecchie ziette, sui motivi che mi collocavano nella condizione di uomo abbondantemente adulto ma ancora non sposato. Poi c’era lei, Caterina, la figlia di Franco, il proprietario dell’unico bar del paese, ancora attraente nonostante tre figli e un matrimonio gettato alle ortiche. Avevamo avuto una storia, da adolescenti, di quelle tenere, fatte di promesse eterne sotto lo sguardo ruffiano della luna estiva, sdraiati sull’erba fresca dei prati a guardare le stelle e a disegnare le architetture dei sogni futuri. Caterina… non avevo ancora avuto occasione di rivederla, ma già sapevo che avrebbe risvegliato in me antichi languori. E forse sarebbe stato meglio evitare situazioni fuori tempo massimo che avrebbero complicato la vita a entrambi.

Meglio non farsi vedere. Molto meglio. Anche se il borgo era piccolo, la possibilità di nascondersi nelle sue pieghe d’ombra c’era tutta.

In paese si era verificato un delitto, quando ancora abitavo qui. Rimasto insoluto. Lo stupro e l’assassinio di una ragazzina di tredici anni, la figlia del fornaio, ritrovata seminuda dietro a un cespuglio lungo l’argine del fiume che tagliava in due l’agglomerato rurale. I genitori straziati dal dolore, la comunità sprofondata nell’incredulità e nello sconforto. Una vicenda dolorosa, che avrebbe lasciato un segno indelebile su tutti. I media si erano occupati del caso per diversi mesi, poi la luce dei riflettori lentamente si era affievolita consegnando la storia all’oblio polveroso dei casi archiviati.

A livello nazionale si erano già verificati alcuni casi simili e l’interesse morboso della gente la conduceva a consumare i fine settimana nei luoghi criminosi, con la puerile scusa della curiosità per sanare la voglia di sangue che da sempre la permeava. Tutto ciò mi aveva dato la nausea e fatto trascorrere lunghi periodi chiuso in casa quando si vedevano arrivare le frotte di giornalisti a caccia di notizie da offrire in pasto a lettori e telespettatori affamati come belve feroci.

Qualche anno dopo il terribile misfatto decisi di partire, lasciandomi definitivamente il borgo alle spalle, salvo poi tornarci in quell’occasione dovendo apporre delle firme su atti notarili riguardanti questioni patrimoniali.

I miei genitori vivevano da tempo in una casa di riposo nel capoluogo di provincia, i miei fratelli erano emigrati all’estero da anni; a conti fatti non c’era nulla che mi potesse trattenere lì una volta sbrigate le pratiche.

Invece qualcosa c’era, che non riuscivo a dimenticare. Seppellita sotto la polvere del tempo riaffiorava in tutta la sua prepotenza, adesso più che mai. Oggi, calcolai mentalmente, avrebbe trentacinque anni, Eleonora. Forse sarebbe sposata, con bambini, con una casa tutta sua, un lavoro gratificante, dei sogni da realizzare o semplicemente da continuare a sognare.

Un fiore delicato reciso nei verdi anni da una mano assassina, il tempo fermato per sempre nell’età più bella, un’innocenza consegnata nuda e violata ai venti di burrasca. Dall’eternità alla culla e di nuovo all’eternità nel soffio di nemmeno tre lustri. In gioventù eravamo stati molto amici, una quantità enorme di tempo trascorso assieme, fra noi l’intesa era perfetta anche se non c’era mai stato niente di sentimentale. Eravamo un trio di adolescenti vivaci e sereni, Caterina, lei ed io.

Mi recai a trovare i genitori, che a stento mi riconobbero. Troppa acqua era scivolata sotto i ponti; i due anziani ricordavano un ragazzetto timido e brufoloso e adesso si trovavano di fronte un uomo realizzato. La visita di cortesia si consumò nel reciproco imbarazzo. Mi congedai in fretta e poi andai al cimitero a deporre dei fiori freschi sulla tomba di Eleonora. Mi trattenni pochi minuti, la mia presenza era inopportuna, la vigliaccheria non si cancella con un mazzo di crisantemi. Non avevo mai lasciato trapelare nulla nel corso degli anni, interrogandomi sempre, però, e al solito rispondendomi di aver fatto la cosa giusta. Ma non ci avevo mai creduto fino in fondo. Avevo taciuto, questa era la cruda realtà dei fatti. L’assassino di Eleonora lo conoscevo bene. È ancora vivo, abita lontano, in un’altra nazione, si chiama Fabio, è sposato e ha uno splendido bambino di sei anni, Aurelio, che ogni volta che mi vede mi corre incontro zampettando come un grillo, allargando le braccine e urlandomi con la sua gioiosa vocina: ”Zio, zio!”