Racconto di Maria Letizia Pecoraro

(quinta pubblicazione – 19 aprile 2020)

 

C’è stato un prima, fatto di normalità scandita dentro la settimana: da lunedì a sabato mattina e poi il fiato allentato di un giorno e mezzo in cui far poco o nulla o mille cose, con la porta aperta – di casa, del paese.

Erano i giorni in cui veniva da chiedere, all’ultim’ora: “Passo a prenderti alle 17, facciamo un giro per negozi e poi aperitivo. Ce la fai?”

È capitato che ci dicessimo di no – “ho i piatti ancora da lavare, i capelli in disordine, no, grazie, non mi va”.

È successo che la frase in più, la decisiva, non fosse pronunciata – per pigrizia, per dispetto, per rassegnazione.

Davvero, a volte, uno specchio lungo il corridoio, ha rimandato indietro un volto stanco, capelli da risistemare e look da bocciare ed è andata a finire che, solo per quella trascurabile nota di colore, si rinunciasse a due, tre ore di buona compagnia senza pensieri.

Ah, ma allora noi non sapevamo ancora!

Si era sentito che, da qualche parte, in un angolo lontano lontanissimo, dall’altra parte del mondo, un bimbetto discolo, mascherato da mostriciattolo, suonasse ai campanelli, ben oltre Halloween. Pare avesse indosso una tuta rossastra, piena di protuberanze che ne facevano una specie di corona tutt’attorno. Neppure tanto bello, eh! Ma di terrificante, ad onor del vero, sembrava non avere niente. Era lontano lontanissimo, dicevo, e così pareva dovesse restare.

Si prenotavano voli low cost per piccoli viaggi di piacere, si chiamavano amiche lontane, programmando visite a musei, a quel castello romantico, lì sulle colline dolci a qualche chilometro da casa. Si scandivano con sicurezza giorni e mesi, lavoro e giorni vuoti da riempire in qualche modo, si dipanavano litigi, battibecchi, paci ritrovate dentro abbracci, in silenzi rotti da parole buone. Niente di nuovo, sotto un cielo a volte greve di pulviscolo pesante, tra gas di scarico e il fumo acre delle prime rimonde degli ulivi coraggiosi.

Poi il bimbetto discolo, mascherato da improbabile re coronato, prese a viaggiare, salendo scalette d’aerei pieni zeppi di gente indaffarata e distratta; ha preso, quel lestofante d’un re, ad aver voglia di nuove avventure, di fare nuove amicizie e d’allargare i suoi confini geografici fin lì circoscritti.

Aereo dopo aereo, abbraccio dopo abbraccio, di mano in mano, si è allargata la tela del suo progetto d’espansione.

Però, per essere un bambino, piccolo, buffo perfino, con le sue punte da corona ed il suo nome latino, è stato davvero determinato: si è fatto strada senza neppure sgomitare tanto. Intanto imparava una lingua nuova, quell’italiano di cui sentiva tanto parlare, entrava dentro Chiese belle come gioielli straordinari, in case e palazzi pieni di pennellate d’oro.

Il bimbo era ormai indomabile, scoprendosi un amore folle per i nonni di questo paese strano, in cui tutti si vogliono un gran bene, anche quando paiono essersi ostili; in cui le famiglie stentano a dividersi e, se sono costrette a farlo, poi come una forza gravitazionale, si ricompongono in nuclei compatti, anche solo per una manciata di giorni all’anno.

Gli piaceva un sacco, al bimbetto coronato, tutto questo amore dilagante, gli faceva da ponte per percorrere, lesto, autostrade, sentieri di montagna e valli in cui il cielo a volte non si vede un granché bene.

“Lavorano tanto, in questo posto – parlava tra sé – ma amano la vita, gli inverni a sciare e le estati al mare”. Il piccolo guardava stupito con quanto impegno, gli italici, si tuffavano nella vita, tra canzoni a squarciagola sopra un palco illuminato, tra calli invase di maschere preziose, con gli occhi dentro insoliti tramonti rosso fuoco a spegnersi in un mare cristallino. “Che belli che sono questi italiani, sono da percorrere ad uno ad uno – si diceva il bimbo col nome latino – mi prendo il massimo che posso, saltellerò più veloce che potrò, prima che i soliti adulti presuntuosi con il sapere in tasca, mi scaccino via da qui”.

È stato proprio cosi che è cominciata, come una scorribanda indomita di un bimbo senza la mamma che gli tenesse la mano, come una giostra impazzita a cui è mancato il freno.

E d’un tratto le luci hanno perso fulgore, le voci più basse hanno preso a sussurrare caute:

“Stiamo in casa, sarà solo per poco, restiamo cosi”.

I giorni si sono allineati, pazienti, uno dopo l’altro; dai calendari appesi sono volati via i giorni segnati in rosso, confusi con gli altri, tutti uguali ormai.

Il bimbo scorrazza ancora, rimbalza come una palla da ping pong, ma comincia a credere che questo popolo di cantanti e poeti, pittori e fantasisti, forse ha bisogno di un pizzico d’amore che lo risollevi, perché il loro stesso, che scorre a fiumi, non basta più.

Allora, Virus – che buffo nome, come la sua corona – pensa ad un piano che lo conduca via da quella terra ridanciana; un po’ per pietà, un po’ perché davvero teme che tanta fantasia, che tutte quelle menti alacri ed affannate avranno la meglio su di lui.

È piccolo, Virus, ma pestifero davvero, furbo come pochi, crudele spesso, come sanno esserlo quelli che si giocano ai dadi il destino della gente; sente il fiato sul collo e corre, senza pensare, cerca una via di fuga mentre il cielo di primavera si satura di profumi.

Già, perché, questo popolo strano che canta, suona, inventa poesie e scrive racconti, sciorina bellezza in ogni angolo di strada e, pur soffrendo, celebra artisti immortali in giorni da ricordare, piange i suoi morti e esulta per le vite scampate, questo popolo qui, in questa tempesta, cucina!

Cucina ad ogni ora, sforna pane e pizze, torte per il mattino, dolci sorprendenti per feste dentro quattro mura… cucina, l’Italia bella e riempie il cielo di Pasqua di così tanti, avvolgenti profumi che lui, piccolo, coronato Virus, non può più respirare e piano piano, come un guerriero che annusa la sconfitta, recede, incerto se credere ancora all’opportunità di fare nuove conoscenze, in questa terra lunga lunga come uno stivale.