Racconto di Maria Pia Rosati

(prima pubblicazione – 5 agosto 2020)

 

 

Ci siamo incontrate per la prima volta nel lungo e anonimo corridoio di un ospedale, io e Tea, mentre eravamo in attesa della visita. Con il bisogno di cercare un volto amico con cui condividere quel momento, ci siamo rincorse con lo sguardo e subito riconosciute fra tutti gli altri pazienti. Avevamo bisogno di esserci l’una per l’altra per sentirci meno sole, anche se non ci eravamo mai viste prima.

Così abbiamo cominciato a parlare senza freno e, in pochi minuti, siamo finite col raccontarci gli eventi più importanti delle nostre vite con quella confidenza mista a cameratismo che solo noi donne sappiamo tessere. Mi era già successo in gravidanza quando incontravo altre donne in attesa nello studio del ginecologo, perfino in sala parto. Tutte a raccontare le proprie paure mescolate allo stupore e all’attesa delle emozioni che avremmo vissuto. Un momento di grande intimità e un bel ricordo da portarsi dietro.

Ma stavolta è stato diverso. Quello che lega me e Tea è un nastrino rosa che le dottoresse hanno appuntato sul camice, un simbolo che è diventato internazionale e che ogni donna ha imparato a riconoscere. I medici e gli infermieri che ci curano fanno parte della “Breast Unit” e l’espressione in lingua inglese risulta provvidenziale per evitare la frase che non vogliamo pronunciare: abbiamo un cancro al seno. Il primo sguardo che ci siamo scambiate è stato di paura, il mio, di speranza, il suo. Ma in fondo agli occhi ci ponevamo la stessa domanda: perché proprio a noi?

Tea in questo momento della sua vita non ha un compagno e non ha avuto figli, ma mi confessa di sentirsi in colpa perché con la sua malattia ha distrutto la vita dei suoi fratelli e dei nipoti. Ricordo che la prima parola che ha attraversato la mia mente, al primo sospetto, è stata “ca..o!”, solo questo. Buffo, no: una parola tanto banale per un momento cruciale, uno spartiacque fra il prima e il dopo. Poi ho provato la sensazione di essere stata presa per il collo, di aver perso la mia libertà, quella di poter organizzare la mia vita, le mie giornate. La malattia e la sua gestione, da quel momento, si sono prese tutto il mio tempo e le mie energie e quel che rimaneva è venuto dopo: la famiglia, il lavoro, perfino la voglia di stare con gli amici, quella di andare a comprare un vestito o di andare al cinema. Tutto è stato inghiottito, perfino la routine di quelle giornate sempre uguali che avevo sempre detestato.

Io e Tea ci siamo scambiate il numero di cellulare dopo aver scoperto che abitiamo sulla stessa strada; ci potremmo addirittura vedere dalle finestre. Una casualità che ci è sembrata provvidenziale. Potevamo incontrarci nel bar sulla piazza per un tè o un aperitivo. Ci siamo lasciate con questa promessa.

Eppure in questi mesi non ci siamo mai chiamate e solo adesso ne comprendo il perché. Dentro l’ospedale siamo due malate e come tali ci confidiamo senza nasconderci, ma quando siamo fuori e ci mescoliamo agli altri non siamo diverse dalle altre donne che incrociamo per la strada, nessuno sa della nostra battaglia e possiamo fingere che niente sia successo. Incontrarci fuori significherebbe dichiararci malate agli occhi del mondo. E questo non lo vogliamo né io né lei. Non è vergogna, solo pudore perché la malattia è una faccenda intima e tocca le nostre fragilità più profonde e nascoste. Ora lo so.

E’ da un po’ che non la incontro e mi manca. Tea ha sul volto un colorito roseo a dispetto della chemioterapia, gli occhi chiari sempre sorridenti sotto il berretto di lana blu che porta calato sulla fronte. Eppure è così bella da non avere bisogno del trucco, ma anche dura come roccia: tutti i medici e gli infermieri la conoscono perché lei non si siede mai, nemmeno se bisogna aspettare delle ore, stare in piedi le serve per affermare la sua forza di fronte alla malattia che sta combattendo per la seconda volta. Io, invece, appena posso cado sulla sedia, mostrando tutta la mia fragilità, con lacrime che scorrono giù senza permesso e senza ritegno nei momenti di sconforto.

Mentre scrivo mi accorgo di quanto Tea mi manchi e vorrei andare a cercarla: è stata la prima compagna di questa avventura e la ricorderò sempre per questo, come il primo giorno delle elementari quando ci si siede allo stesso banco e si rimane compagni per tutta la vita. Però freno l’impulso e mi trattengo: aspetto che accada di nuovo. Perché altrimenti ci saremmo incontrate la prima volta? Che senso avrebbe se finisse tutto così? Sto imparando a scovare negli eventi segreti messaggi da decifrare, così preziosi per dare un senso alla nostra vita quando crediamo di averne perso la direzione in cui andare.

In questo periodo in cui tutti siamo stati in casa, mi sono chiesta spesso come Tea stesse trascorrendo questi lunghi giorni e le interminabili notti. Di giorno la paura viene dominata dalle tante occupazioni con cui ho sempre riempito la mia vita. E funziona ancora adesso. Ma la notte fa affiorare tutte le incertezze, le angosce per i controlli medici che sembrano ormai scandire il mio tempo. Mi chiedo se Tea in questo periodo abbia dormito, se sia riuscita a svolgere da casa il suo lavoro di ingegnere come io ho svolto il mio. Le vorrei dire che, alla fine, sono stata fortunata: ho terminato la radioterapia appena prima che scoppiasse il caos negli ospedali. Spero che l’abbia terminata anche lei.

Ora avrei bisogno di un suo dei suoi tanti sorrisi rassicuranti. Vorrei che mi dicesse: “Andrà tutto bene”, nel senso che guariremo e che ci ritroveremo su un tavolino di quel bar sulla piazzetta dove affacciano i nostri balconi per incontrarci di nuovo e continuare a raccontarci delle nostre vite, ma con gli occhi luminosi della speranza. La nostra storia si è bruscamente interrotta e quella casualità che per tante volte ci ha fatto percorrere nello stesso momento lo stesso corridoio, sembra si stia divertendo a tenerci lontane proprio adesso che tutti hanno bisogno di rassicurazioni. Spero che un giorno troveremo il coraggio di partecipare alla maratona di beneficienza per tutte le donne che hanno vissuto la nostra stessa esperienza. E che troveremo il coraggio di superare la paura e di correre insieme con il nastrino rosa appuntato sulla maglietta. A presto, cara Tea.

 

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