Racconto di Maria Letizia Pecoraro

(20 febbraio 2021)

 

Giacomo non dormiva mai più di tre ore a notte. Lui apriva gli occhi nel mezzo nel torpore altrui, tendeva l’orecchio al silenzio e lentamente si affacciava al giorno.

Il suo risveglio incominciava girandosi su un lato, volgendo il corpo laddove i suoi pensieri erano già arrivati. Socchiudeva gli occhi e li lasciava andare lungo la linea sinuosa della collina, ne guadagnava la vetta con un cammino lento, lungo il rettilineo tornito che di giorno congiungeva il cielo con la terra e di notte si allungava in quell’orizzonte morbido gettato nel suo letto: Elena.

Cominciava ad accarezzarla prima con gli occhi, per non turbare il sonno di quelle dune brunite, dell’oasi arruffata dei riccioli scuri che si allargavano sulla federa di seta rosa carnicino. La percorreva nel contorno, ne circoscriveva il corpo morbido, tracciando le vette stondate dei fianchi generosi, sprofondava nella vallata breve della vita prima di inerpicarsi con il fiato corto su per il sentiero ripido che sfocia nel promontorio instabile arroccato sopra al petto e da lì, con un sospiro lieve, si tuffava a capofitto nel canyon profumato che, scivolando tra i seni lo dirottava nella radura fertile della pancia, e lì cercava ristoro.

Lei si girava piano nel sonno, assecondando in un istinto cieco la traiettoria fremente di quegli occhi, che la racchiudevano in un cerchio immaginario, dentro cui si assoggettavano ai sensi, senza alcun limite, senza nessuna regola.

Giacomo, sentendola muoversi, la lasciava andare: sapeva che quel suo desiderio muto, le scompigliava il sonno di bambina: la guardava agitarsi e sorrideva di quella lotta impari tra il buio della coscienza e il filo scarlatto della loro passione che la strattonava, tentando di condurla nel vortice impaziente. Distoglieva lo sguardo per prolungare il suo riposo e nell’attesa vagava con il pensiero, irrequieto. Porre un argine alla liturgia del piacere, spostandolo appena appena in là, lo accendeva, sfrenava i suoi pensieri. Conosceva quel corpo da così tanto tempo! Eppure ogni mattina era sorpreso di cogliere una sfumatura nuova dentro il profumo familiare, una curva, una piega che aspettava di essere esplorata; un orizzonte di pensieri nuovo, diverso da quello che s’era addormentato la sera prima, l’avrebbe sedotto oggi.

Amava alla follia quella ricchezza, quella linea irrequieta. Il suo sguardo affondava come dita tra i capelli arruffati e gli sembrava di annegarci dentro.

Ritornava allora a un giorno d’aprile di quasi quarant’anni prima, quando il suo chiacchierare pigro con l’amico che gli era a fianco si era infranto contro quel corpo adolescente. Chi era – si era chiesto subito, aggrappandosi con gli occhi a quella ragazza che vedeva per la prima volta.

Non aveva mai creduto alla sciocchezza della freccia di Cupido che colpisce il bersaglio senza lasciare via di scampo.

Però quel giorno Giacomo l’aveva guardata e un sogno confuso si era disegnato nello spazio vuoto che lo separava da lei. Quel corpo, la coda alta sulla testa, gli occhi lontani, parevano chiamarlo a sé e in un istante aveva pensato, irragionevolmente, che non avrebbe più desiderato altro.

Sospirò piano, voltò il viso alla sua destra, il fruscio della testa sulla seta calda riempì la stanza di un suono lungo, quasi un volo d’arpa; un altro se ne aggiunse, simile, fondendosi nell’aria densa degli odori dei corpi che si riconoscevano d’istinto.

“Buongiorno” sussurrò senza voce lui.

“Non dormi?” la bocca impastata di sonno si allargava lenta in un sorriso.

“No, passeggiavo dentro e fuori il tuo corpo. Mi piace tirare il filo scarlatto”

Lei gli allargò le braccia per farsi strada e come un’onda morbida lo lambì avanzando lenta sulla sabbia assetata.

Avevo ragione allora, pensò Giacomo, non volevo altro per me, nient’altro che lei.