Racconto di Francesco Liberti

(seconda pubblicazione – 29 marzo 2020)

 

Fellinia era una città “utopica, felice, magica, ancestrale”: <<Intendo dire che la gente si fermava, fraternizzava, le parole e i suoni degli artisti di strada fluttuavano senza perdersi nell’aria>>.

Era stata fondata da Federico Fellini, “per dare spazio alle nuove generazioni di clown e di artisti”, affinché esprimessero il loro talento senza che le barriere politiche li limitassero.

<<La gente non aveva mai capito quanto Fellini e il suo genio amassero la gente>>. <<Ecco perché il maestro creò questo spazio vitale>>.

Un grosso tendone da circo, la cui cupola sembrava un vulcano, era meta di artisti-pellegrini che venivano qua da ogni parte del mondo per imparare il mestiere da clown.

C’erano in programmazione tre spettacoli al giorno: <<al mattino, nel pomeriggio e alla sera>> e il livello e la qualità degli artisti che si esprimevano aveva fatto sì che alcuni di loro avevano ricevuto dal Principe Alberto del Principato di Monaco la medaglia d’oro che rimaneva in tutto il mondo una grande onorificenza nel mondo del circo.

Una sera andai a dormire, essendo la notte governata “dalle Leggi di Natura” che accompagnavano il cammino delle creature del bosco che, con i loro occhi luminosi, riuscivano a vedere nel buio.

Il mio stato mentale era semicosciente, nel senso che avevo gli occhi che rimanevano in uno stato di vigilanza tra le trame dei sogni, <<come se dovessi sottrarmi a un pericolo!>>.

Così liberamente sognai.

Sognai che una pandemia, incominciata nei paesi asiatici Cina e Corea del Sud, fosse giunta fino a Fellinia e che le strade, prima popolate all’eccesso fossero ora diventate un deserto, come le città che si svuotano nel mese di agosto o come quando negli anni ’40, durante i bombardamenti degli aerei inglesi, la gente per sopravvivere si nascondeva nei rifugi sotterranei. Gli ospedali erano diventati stracolmi di gente a tal punto che non c’era più spazio per le emergenze sanitarie e la gente, che prima era aperta nella conversazione e solidale, ora era solo sospettosa del prossimo, per la paura del contagio di questa forma virale definita “Covid 19”: <<C’era insomma la paura del contagio universale!>>. Come nei Promessi Sposi di Manzoni, dove la peste c’era stata descritta come una forma di Apocalisse e c’erano gli untori che avevano il compito di terrorizzare la gente.

<<Ma il punto non era questo!>>.

Pur abitando nelle realtà metafisica di Fellinia, mi accorsi di una condizione estrema, di una profonda differenza di cultura e sensibilità tra i popoli della Cina, del Sud Corea e quelli europei e/o occidentali.

In Oriente “c’era la cultura della vita e di conseguenza la cultura della morte”, come processo naturale e come conoscenza dei principi della vita, nel senso che ai bambini fin da piccoli veniva insegnato il rapporto culturale <<Morte-Vita>>, essendo spiegato dagli insegnanti, fin dalle classi elementari, che la morte fosse una presenza costante della vita e viceversa. Così si gestiva l’autocontrollo, “l’equilibrio” fisico, mentale e spirituale e la crescita della futura persona.

In Occidente invece e nei paesi europei, essendo la morte causata da un virus sconosciuto anche ai virologi, essendoci state centinaia di forme di virus, la morte non venina vista come una forma della vita e come una rinascita, ma come un’ossessione costante che entrava nella mente degli individui.

Si veda l’opera di Sigmund Freud “EROS E TANATOS” = ”AMORE E MORTE”.

Era mai possibile che a Fellinia, dove era permessa ogni forma di creatività e in Occidente, le riflessioni della e sulla morte non andassero oltre il bagaglio dei tabù perpetuati dall’umanità per secoli? Che si portava appresso da millenni?

C’era stata una persona eccezionale, un sensitivo di nome Klemens Rey che aveva spiegato, sull’orlo dei suoi ’90 anni, <<CHE LA MORTE NON ESISTE! CHE LA MORTE NON ESISTE!>>, ossia intendeva dire che, dopo il passaggio naturale che apparteneva al disegno terreno, c’erano aspettative di un’altra vita per le dimensioni dello spirito e ripeteva nelle sue conferenze: “LA MORTE NON ESISTE, LA MORTE NON ESISTE”. Dopo la vita ci saremmo ritrovati tutti a cantare e a ballare nel meraviglioso mondo celeste delle angeliche gerarchie celesti.

Nel frattempo la pandemia cresceva a Fellinia e nel resto del mondo e il panico si diffondeva.

Le indicazioni governative restringevano le persone a non uscire più di casa, <<a tenere una distanza dal prossimo per strada per la paura di essere contagiati>>, dato che questo virus covid 19 si trasmetteva per le vie respiratorie sotto forma di un’influenza virale che non sempre veniva curata <<se non presa in tempo>>.

Mi ripetevo alla mia età non più giovane <<che il mondo fosse caduto letteralmente in uno stato latente di paura, che in un certo senso <<la macchina razziale del sapere occidentale si fosse rotta per sempre>>, che <<il giocattolo sanitario, infermieri, medici e strutture sanitarie, eufemismo sportivo, non funzionasse più>>.

Si erano interrotti i campionati di calcio e le manifestazioni sportive di ogni genere, i negozi tranne farmacie, parafarmacie e servizi postali e bancari erano stati chiusi sotto ordinanza della presidenza del consiglio e sotto l’ordinanza regionale del governatore.

Al mio risveglio ripensai a tutto quello che mi era successo in sogno, ai particolari, ai contenuti: <<ai limiti del fisico, ai limiti dello spirito>>.

Così io, che di professione facevo il clown e il mio mestiere era quello di far divertire i bambini e gli adulti, organizzai con gli altri artisti, i Clown Bianchi (clown razionali e dittatori),  gli Augusti (clown impertinenti e irrazionali), con Tony (un altro Augusto inserviente), con gli acrobati e i giocolieri, giunti da ogni parte del mondo, una “pantomima” che s’intitolava: <<LA MORTE DEL CLOWN!>>, per sdrammatizzare tutto questo contesto di terrore e paura che si era creato dentro di noi, e che condizionava le nostre vite.

La scena cominciava con due clown trombettisti che suonavano scendendo con leggiadria sulle gradinate riempite dal pubblico. Poi entrava un clown inglese con cilindro e faccia truccata di bianco, con delle stelline nere dipinte sulle gote, che trascinava un feretro trainato da sei cavalli: anch’essi erano clown che indossavano l’abito da cavallo e trascinavano questa carrozza sgangherata. Uno dei cavalli-clown a un certo punto uscì dalle schiere e disse che il sindacato dei clown non fosse sempre stato prodigo alle loro esigenze. A questo punto il guidatore inglese con cappello a cilindro gli urlò un comando, si tolse il cilindro e sorrise verso il pubblico.

Poi il clown vestito da cavallo rientrò nei ranghi.

Urla, schiamazzi, voci e tutti che gridavano: <<è morto Fumagalli, è morto Fumagalli, è morto cadavere!>>.

E la gente rideva perché tutta la pantomima era strutturata con toni leggeri e divertenti, come i film di Buster Keaton o i capolavori come Charlot.

Allora, entravo io in scena accompagnato dai clown disperati ed egocentrici, dai Clown Bianchi, dagli Augusti e da Tony (altro inserviente di scena simile all’Augusto); mi avvicinavo ai bambini sulle gradinate, gli regalavo coriandoli, fischietti e grossi martelli di gomma che i clown usavano nella scena dell’operaio ubriaco che, non facendo attenzione nell’etilismo estremo, colpiva il suo pollice, che si gonfiava all’eccesso anziché il chiodo, anch’esso di plastica e gigante.

<<E spiegavo ai miei colleghi che Fumagalli era vivo, era vivo!>>.

Tanto è vero che Fumagalli uscì da sotto la carrozza trainata dai cavalli-clown, salutò cordialmente il guidatore inglese col cilindro e la scena terminò con i due clown che suonavano sulle gradinate spoglie, ormai, di pubblico.

Quella musica viva e commovente mi entrò nel cuore.

Entrò anche nel cuore della gente e sconfisse il covid 19. Si sparse nell’aria come una forma concentrata anti-virale.

Quei clown bianchi, che correvano in due file per sfoggiare i loro abiti fosforescenti e “dai più svariati colori!” abbracciarono Fumagalli.

La paura scomparve.

La gente ritornò a parlare.

Sparì la paura del contagio.

<<La taumaturgia, il potere mistico e infantile delle pantomime dei clown avevano trasformato tutta la realtà del popolo di Fellinia in una dimensione ultrasensibile>>.

Si diffusero per strada le voci e i suoni degli artisti vagabondi, liberi da ogni terrore e paura.

La gente si mise a cantare, ballare e recitare: la pandemia fu sconfitta, essendo stato il clown Fumagalli “il fulcro dell’intera razza umana”, taumaturgo, eclettico e divertente, dotato di energie curative.

Era la storia mistica di un uomo che viveva come un monaco. <<E QUESTE FURONO LE MIE OPINIONI DI CLOWN>>.