Racconto di Grazia Battini

(prima pubblicazione 5 giugno 2020)

 

Dopo il lockdown avevo sollecitato   il parrucchiere per ottenere un appuntamento: non mi chiamava, nonostante le sue promesse. Ottenuto l’appuntamento, feci fare una acconciatura che avrebbe richiesto una manutenzione alla mia portata: non più messa in piega e non più colore, solo taglio ogni due mesi e quindi sensibile risparmio economico. Nuovo look: capelli corti, corti, bianchi, con le punte nere. Allo specchio mi piacqui. Il parrucchiere, utilizzando un altro specchio, mi fece intravedere il dietro. Fu un gesto per me fantastico: da ragazzina già lavoravo ed avevo abbastanza soldi per andare da un parrucchiere di lusso e sempre, a lavoro ultimato, Mauro mi faceva vedere com’era la mia acconciatura dietro. Avevo richiesto questa prestazione a diverse parrucchiere nel corso della mia vita, ma nessuna l’aveva fatto. Mauro sì, senza che lo avessi richiesto. Abbozzai un sorriso, impercettibile dietro la mascherina. Certo: la mascherina, obbligatoria per me e per il parrucchiere che si sarebbe anche igienizzato le mani attraverso i costanti lavaggi dei capelli delle clienti. Io avevo perfino i guanti di lattice e gli occhiali da sole per proteggere gli occhi, considerati facile strada per il virus. Tante cose mi venivano in mente, alcune tristi, altre addirittura comiche Cominciai con il volere strappare una risata al parrucchiere e ci riuscii. Il parrucchiere rise rumorosamente, certo perché una risata sommessa non si sarebbe percepita da dietro la mascherina. Tutto questo non era certo contenuto nel protocollo, ma neppure vietato. Avevo raccontato la mia barzelletta preferita in quel periodo. Due uomini con la mascherina s’incontrano ed uno dice all’altro “Ciao, Ugo:” L’altro risponde “Ciao, Paolo” “Ma io non sono Paolo.” “Che c’entra? Nemmeno io sono Ugo”.

Col parrucchiere avevo finito proprio con la barzelletta e uscii, dopo aver pagato, in strada con i pensieri di prima che mi attraversavano la mente. Parecchi anni fa avevo letto che lo psicoterapeuta prepara la “morte” di sè stesso dando autonomie al paziente. Questa volta era stato il parrucchiere a preparare la “morte“ di se stesso con un abile taglio che poteva essere gestito da me. Certo. Mai fare come un medico che non guarisce mai l’ammalato per non perdere un cliente. Fu allora che il mio pensiero da gioioso divenne triste. Pensai ai medici, agli infermieri e a tutti, tanti, troppi, i deceduti per il Coronavirus. Pensai a tutta, tanta, troppa paura che avevamo avuto. Sapevo che anche adesso, fase due, non bisognava abbassare la guardia. “Ciao, Claudia” “Chi sei?” “Sono Eleonora appena uscita dal parrucchiere”, Claudia si complimentò con me, rimanendo naturalmente a due metri di distanza. Poi aggiunse “sono contenta di averti incontrata”. “Ti avrei chiamata oggi pomeriggio. Ho trovato, tra le carte di mia madre, un dattiloscritto che parla della sua vita. Sai, lei aveva frequentato un corso di stenodattilografia ed abbiamo ancora la sua “Olivetti lettera 22”. Ho pensato di farlo leggere a te che scrivi”. “Quale onore” risposi. ”Puoi lasciare una copia nella mia cassetta delle lettere”. L’avrei certo letto con piacere. Colsi l’occasione di comunicarle uno dei pensieri seri che mi attraversavano la mente: “Oggi, purtroppo, devo definitivamente abbandonare l’ultima, in ordine di tempo, delle utopie che mi ero costruita in questi lunghi giorni di lockdown: uscire da questa pandemia migliori di prima perseguendo un nuovo modello di sviluppo. Guardandomi intorno e ascoltando le news vedo che tutti desiderano ripercorrere le strade di prima”. Claudia rispose: “Anch’io ho questa sensazione”. Ci salutammo, con la promessa di rivederci in un bar per commentare il dattiloscritto di sua madre.

A casa, poggiai sul mio tavolo, con mano tremante, lo scritto della mamma di Claudia.

Le scuole erano vicino a casa e sul percorso c’erano le “marmette”, avanzi del marmo ricavato dalle nostre cave, sui monti. Il mare era vicino, ma non venivano ancora molti turisti. Andavo a scuola con mia sorella Angelica, che era maestra. A quel tempo si poteva. Quando ero a casa, spesso dicevo a mia madre “O mamma, la tu’ figliola dà la colpa a me di tutto quello che succede in classe”. Mia mamma mi esortava sempre ad avere pazienza.

Un giorno la Maestra non mi aveva mandato in bagno ed io lungo il percorso verso casa feci pipì sulle marmette.

Mia sorella lo riferì alla mamma e, insieme con le mie continue lamentele, fu questo che mi fece andare in Collegio. Fui mandata dalle suore di S. Zita, a Lucca. In tutto eravamo diciotto ragazze. C’era chi studiava fuori dal collegio e c’era chi studiava dentro il collegio, come me. Oggi direi che le ragazze “interne” facevano studi non parificati. La mia convinzione era che mia madre, vedova con altri sei figli, non pagasse la retta: mi mandavano sempre a pulire i gabinetti. Molti anni più tardi ebbi a mia volta una figlia che spesso si lamentava delle sue compagne di scuola.

“Che avrei dovuto dire io sola, senza mamma, in mezzo a diciassette ragazze! “Dicevo a mia figlia, che scuoteva tristemente il capo e si allontanava in fretta. Parlavo spesso della mia vita con mia figlia: non ho mai saputo se facevo bene o male. Avrei dovuto scrivere che parlavo spesso con te dei miei anni passati. Sei tu, mia unica figlia Claudia, la destinataria di questa comunicazione. Certo, si spera sempre di esser letti da molti, ma il principio di realtà ci impone di ritenere che solo chi ci è più caro ci leggerà. Tra quelli che scrivono sono pochi quelli che riescono ad arrivare al grosso pubblico. Allora, Claudia, dopo averti addolorato con le mie storie tristi, voglio raccontarti di un periodo sereno trascorso incredibilmente durante la seconda guerra mondiale. Avevamo dovuto abbandonare il paese: c’era pericolo di bombardamenti ed eravamo sfollati in paesini della montagna. Io ero con la tua nonna Franca e ci arrangiavamo per mangiare, come tutti gli sfollati. Avevamo pochi soldi e se anche ne avessimo avuti di più non avremmo trovato altro che castagne, farina di castagne e pochi ortaggi. C’era molta solidarietà tra noi: di giorno, dopo aver sbrigato le faccende, noi donne ci sedevamo fuor dell’uscio a parlare del futuro incerto dato il pericoloso andamento della guerra. Certo, la morte era sempre presente per noi e per i nostri cari lontani ma non facevamo mai pettegolezzi e ci confidavamo i nostri crucci segreti, convinte di essere ascoltate e comprese. Dopo cena sedevano con noi alcuni uomini, pochi e vegliavamo con la lampada ad olio. Dopo qualche tempo speso in conversazione, chiudevamo la serata recitando il Rosario. Al termine di questo tua nonna Franca diceva “Buonanotte Gesù che l’olio è caro”

Lo scritto della mamma di Claudia terminava qui, e sembrava proprio non finito. Forse era sopraggiunta la morte a mettere la parola fine al breve racconto, anche se c’era stata la possibilità di lasciare la memoria di un evento talmente importante, talmente doloroso e pieno di lutti che aveva segnato profondamente la vita della sua generazione. Come certo sarà il Coronavirus per noi.