Racconto di Maria Letizia Pecoraro

(sesta pubblicazione – 3 maggio 2020)

 

Non piangevo da tanto, per futili motivi.

I pianti seri non contano, non li metto neppure nel novero che faccio, preferisco archiviare.

Ma i pianti per un nonnulla mi piace ricordarli, perché sono pochi, non piango facilmente e quando lo faccio è sempre a sproposito, a scoppio ritardato e sempre mettendomi o mettendo gli altri in imbarazzo.

Non accadeva da tempo che piangessi, neppure in tempo di Covid 19 m’è successo; ho avuto molta paura, ho provato un grande dolore, mi sono anche arrabbiata o son rimasta delusa, ma il pianto no, non c’è stato. A meno che non si consideri tale la cascata di lacrime delle grandi risate, quelle che partono all’improvviso, per una faccia buffa, una battuta ad effetto, per niente di importante, e si finisce per ridere fino a piegarsi in due, contagiando intorno chi ti guarda prima stupito, non potendo poi che ridere con te, di te.

Ora che ci penso, ho riso spesso in questo modo, in questi lunghi giorni  trascorsi racchiusi in un periodo; è capitato per un soffritto bruciato, una domanda un po’ stramba, una partita a scala quaranta interminabile e noiosa, giocata con il pensiero altrove e fingendo di litigare per un punto.

Ho fatto delle grandi risate, fino a sentir scendere lacrime copiose sulle guance paonazze, restando senza fiato e con gli addominali poco allenati doloranti.

Chissà perché – mi domando ora, guardando un po’ a distanza – chissà che cosa sarà successo.

La psicologa mancata, sopita tanti anni fa, mi suggerisce che avrò voluto esorcizzare la paura per questa catastrofe annunciata e piano piano arrivata a lambirci pur senza travolgerci del tutto (per fortuna!); scavalcare il disagio del vivere gomito a gomito, senza un attimo di tregua, senza quasi spazio per sé.

Ridere così tanto forse è stata la chiave di volta per reggere il soffitto di quella stanza illusoria costruita, un giorno di marzo in quattro e quattr’otto, per accoglierci dentro e provare a salvare quel che si poteva, opponendo lo scudo del rigore dell’obbedienza alla crudele voracità di un virus scatenatosi contro noi inconsapevoli, agitati, distratti e presi da mille cose rivelatesi mediamente importanti, alcune del tutto sterili, tutte di sicuro governabili in modo diverso da come ci eravamo fin lì abituati a fare.

Rinchiusa in casa, con i miei cari, ventiquattr’ore su ventiquattro, senza scadenza immediata, forse ho preso a ridere per uscirne fuori, per ringraziare un giorno alla volta di esserci ancora, di avere con me, vicini o lontani, quelli che contano.

Ho riso tanto, davvero, a volte vergognandomene un po’, poi ridendoci su… ecco, giusto per dire!

Ma piangere, non mi accadeva da tempo.

Poi sento un’amica che lascia cadere, tra una chiacchiera e l’altra, un’idea per un contorno sano, fatto con poco, ma gustoso davvero: le cipolle al forno.

“Uh, buone, le faccio! Dimmi come, ché alla prossima spesa, prendo ciò che mi occorre e ne preparo un po’.”

“Eh sì, amica mia, qui dobbiamo buttarci su ortaggi e verdure per limitare i danni di pizze, pani fragranti appena sfornati e compagnia bella” mi dice lei.

Ed oggi, nella mattina di un maggio radioso, dopo il caffè di rianimazione e una colazione con yogurt, farro soffiato e una manciata piccina di mandorle – tutta salute gettata generosamente nel corpo, per tentare il rimedio che la bella stagione impone – eccomi ad affrontare il rito del pranzo.

Dopo il ragù canonico del giorno di festa, con trito fine di carota, sedano e cipolla, unito a tutto il resto ed accompagnato nel suo avvio, eccomi ad affrontare il contorno di nuova fattura.

Mi armo di coltello affilato e mi schiero di fronte ai due chili abbondanti di cipolle bianche.

“Quelle fresche e di forma schiacciata, mi raccomando, son le migliori” m’aveva detto l’amica.

Pelo piano la prima, poi la seconda; alla terza già il naso mi pizzica capriccioso, dopo la quinta tiro su e mi schiarisco la gola, come se dovessi scacciar via un groppo inesistente. Finito il primo sacchetto piango, copiosa, ma sono ancora composta; alla fine del secondo mi manca solo il singhiozzo, gli occhiali che credevo m’avrebbero in qualche modo protetta, ormai anch’essi in uno stato pietoso, si sono arresi al fallimento della loro funzione primaria.

Per fortuna la scorta di cipolle fresche, bianche e schiacciate era contenuta: quando arrivo alla parte “incidi una croce alla base, cospargi con poco sale e disponi in una teglia con vino bianco e olio”, sono distrutta da un pianto da far ridere a crepapelle.

“Ecco – mi dico – alla fine ho trovato il modo di bagnare la quarantena con la lacrimuccia d’ordinanza”.

Mi vien da ridere al solo pensiero di essere caduta vittima del cipollotto e dei suoi generosi effluvi.

Un pensiero improvviso: vuoi vedere che il dannato d’un virus, mi scivola sull’ortaggio patetico, compagno fedele di intingoli e sughi?

Roba da piangere dal ridere!