Racconto di Angela Moscarelli

 

Arrivò, senza sapere come, vicino all’albero. Si guardò intorno. Non c’era nessuno. Cominciò a sentire dentro di sé un’angoscia insopportabile. L’aria era umida. Attorno, nebbia e solitudine. Il silenzio sovrastava il battito del suo cuore.

Le ombre della notte iniziavano ad allungarsi sulla terra. Non riusciva più a muoversi, sentiva i piedi intorpiditi e la testa che gli ronzava. Annusò l’aria: sapeva di erba e pioggia. Un’ombra cupa cominciò a farsi strada nel suo petto. Guardò la casa. Avvolta nel suo abbandono inquietante. Le porte erano chiuse come la sua bocca che non riusciva neppure ad emettere un gemito. Sentì una stretta al cuore.

I rami giganteschi dell’albero, come braccia maligne, lo sovrastavano e gli facevano mancare il respiro per la paura.

Tutto era silenzio e solitudine.

Si sentiva prigioniero fuori da una casa con le finestre inferriate. All’improvviso un dubbio lo assalì: la prigione era fuori o dentro di sé?

La sua mente iniziò a vacillare e la sua testa a girare. Il buio si faceva sempre più incombente. Aveva bisogno di un rifugio per ripararsi dal freddo della notte. Aveva paura a restare fuori ma la stessa paura lo assaliva anche al pensiero di ripararsi nella casa, se mai avesse trovato un modo per entrare.

Si appoggiò all’albero per non cadere. Respirò a fondo, con gli occhi chiusi e il naso ad inspirare aria.

Il suo cuore iniziava ad avere battiti più regolari. Il respiro si placò. Si staccò dall’albero e si diresse verso la casa. Porte e finestre erano sbarrate ma all’improvviso scorse un’apertura nel muro dalla quale avrebbe potuto provare ad entrare.

Il buio non era così fitto dal momento che c’era una bella luna piena che illuminava quanto gli bastava per orientarsi.

Sbirciò al di là di quello squarcio nel muro che sembrava una ferita scoperta. Si chinò e, con i battiti del cuore che gli pulsavano nuovamente nelle tempie, varcò quella feritoia ed entrò nella casa, avvolta nelle tenebre e nel silenzio.

Attivò tutti i suoi sensi. La stanza odorava di legno e muffa. Da una finestrella inferriata ma con le imposte divelte filtrava la tenue luce della luna alta nel cielo e così i suoi occhi iniziarono pian piano ad abituarsi a quella semi oscurità.

Si guardò intorno. Non c’era dubbio che in quella stanza era da solo ma aveva come l’impressione che mille occhi lo osservassero.

Cominciò a rimpiangere il buio. Quella penombra gli faceva intravedere cose che però non poteva vedere chiaramente e lasciava spazio all’immaginazione e al timore.

Restò impalato in mezzo alla stanza per un tempo che non riuscì a calcolare. Sentiva solamente il suo corpo immobile e incapace di fare un solo passo.

All’improvviso udì uno scricchiolio che lo fece trasalire. Non voleva sapere cosa o chi l’avesse provocato ma comunque quel rumore gli diede la scossa per riscuotersi da quel torpore.

Iniziò a muoversi con cautela. Il chiarore della luna illuminava a malapena l’ambiente.

Con le braccia distese davanti a sé per evitare eventuali ostacoli non visibili, ad un certo punto i suoi piedi toccarono quella che gli sembrò una sbarra e si bloccò. Abbassò gli occhi. Intravide una brandina addossata al muro. L’idea di distendersi su quel letto lo pervase. Sentì all’improvviso tutta la stanchezza del mondo. Prima ancora di distendersi socchiuse gli occhi e immaginò un sonno benefico e ristoratore.

Restò così, in piedi, per qualche minuto. Nonostante la stanchezza, però, non riusciva a decidersi.

Per quanto allettante l’idea di riposare il suo corpo, la paura di addormentarsi in quel posto buio e sconosciuto aveva il sopravvento.

Lo sconforto iniziò a farsi strada nel suo cuore. Non ce la faceva più a reggersi in piedi. Si sedette sulla brandina. Prese la sua testa tra le mani. Aveva voglia di piangere ma i suoi occhi sembravano stanchi anche di lacrime. Cercava ora di ricordare come era arrivato in quel posto e perché.

Possibile che nessuno lo cercasse? Non riusciva neppure a ricordare dove fosse la sua casa. Ce l’aveva, poi, una casa?

La nebbia che poco prima aveva visto fuori, era ora tutta nella sua testa.

Un brivido di freddo percorse la sua schiena, ma sapeva che non era solo l’umidità della stanza a fargli sentire quel gelo addosso.

Udì nuovamente uno scricchiolio e qualcosa che sembrava muoversi alla sua destra. Il terrore lo paralizzò al letto. Probabilmente era solo un topo. In quel posto umido e abbandonato non poteva che essere un topo. E, inaspettatamente, l’idea di quella presenza quasi lo confortò. In fondo non era solo, meglio così. Un altro essere vivente era lì a condividere con lui quelle ombre sinistre.

Volse lo sguardo fuori dalla finestra sgangherata da cui proveniva la lieve luce della luna. L’albero era come un immenso gigante messo là a guardia di quella casa. I rami sovrastavano il tetto e, come enormi braccia, sembrava avvolgessero in un abbraccio macabro le mura dell’intera struttura.

Perso nei suoi pensieri e nella sua immaginazione ad un tratto gli parve che un ramo si facesse strada tra le aperture della finestra come un’enorme mano che cercasse qualcosa.

Certo il buio e la paura gli giocavano strani scherzi!

D’altronde, si udiva anche un vento fortissimo sibilare tra le pareti di quella stanza e molto probabilmente era proprio il vento a scuotere i rami di quel gigante.

Si chiese che ore fossero. Con sé non aveva orologi o altro che lo potessero aiutare. Oramai aveva perso la cognizione del tempo. Poteva essere là da ore o da pochi minuti. Non riusciva più a capirlo. Gli sembrava, anzi, di vivere in quella casa da sempre.

In un non luogo senza tempo.