Racconticompleanno a cura di: “TOTO”

CHARLOTTE BRONTË

21 APRILE 1816 – 31 MARZO 1855

(PUBBLICAZIONE 21 aprile 2021)

 

Charlotte Brontë scopre, attraverso la scrittura, una dimensione parallela in cui a decidere il futuro di ognuno di noi è l’autore con la sua volontà, attraverso il mondo dei racconti e della fantasia.

La penna quindi diventa la chiave di un mondo alternativo al reale nel quale ci si aspetta che la donna si comporti, e addirittura pensi, in una determinata maniera; la scrittura è una forma per raccontarsi e per riflettere nell’unica maniera in cui poteva venir letta: con voce maschile. Il suo primo romanzo pubblicato, infatti, fu firmato sotto pseudonimo Currer Bell.

 

 

TRATTO DAL LIBRO “JANE EYRE”

Camminai un gran pezzo su e giù per la camera, coll’idea di esser lì solo a rimpiangere la mia perdita, e pensare al modo di ripararla. Ma, terminate le mie riflessioni, mi accorsi che il pomeriggio era passato, e la sera era già molto avanzata, e feci un’altra scoperta nei miei riguardi, ossia che nel frattempo ero stata soggetta a un processo di trasformazione; che il mio spirito si era liberato da tutto quello che aveva avuto in prestito dalla signorina Temple, o meglio, che essa si era portata via con sé l’atmosfera serena che aveva creato intorno, e ora ero rimasta nel mio elemento naturale, e provavo lo stimolo delle mie vecchie emozioni. Era sparito un appoggio, o meglio era partito un movente. Non era la possibilità di essere tranquilla che mi mancava, ma non esisteva più la ragione per la tranquillità. Il mio mondo in quegli anni era stato Lowood. La mia esperienza non era uscita dai suoi regolamenti e dalle sue abitudini. In quel momento mi rendevo conto che il mondo era vasto, e che un campo pieno di speranze e di paure, di sensazioni e di esaltazioni aspettava chi aveva il coraggio di affrontarlo, e di cercare la vera conoscenza della vita fra i suoi pericoli.

Andai alla finestra, l’aprii e guardai fuori. Si vedevano le due ali del fabbricato, il giardino, le mura di Lowood; poi, all’orizzonte, le colline. Il mio sguardo scivolò su tutti gli oggetti vicini, e si fermò su quelli più lontani, le cime azzurre. Erano quelle che desideravo valicare. Tutto entro i loro confini di rocce e di erica pareva una prigione, un esilio. Riconobbi la strada bianca che serpeggiava su per la montagna e scompariva in una gola. Come avrei voluto seguirla! Rammentai il tempo che avevo percorso quella strada in carrozza; ricordai che avevo disceso quella collina al crepuscolo. Sembrava un secolo dal giorno che ero venuta per la prima volta a Lowood! Da allora non l’avevo mai lasciato. Avevo passato tutte le mie vacanze nella scuola. La signora Reed non mi aveva chiamata a Gateshead; né lei né alcuno della sua famiglia era mai venuto a trovarmi. Non avevo mai avuto comunicazione per lettera o a voce col mondo esterno. I regolamenti della scuola, i doveri della scuola, le abitudini della scuola, e le opinioni, le voci, i volti, le frasi, i costumi, le preferenze e le antipatie della scuola: questo era quello che conoscevo dell’esistenza. Sentivo ormai che non bastava. In un solo pomeriggio avevo avvertito la stanchezza del tran tran di otto anni. Aspiravo alla libertà, anelavo la libertà, e pronunciai una preghiera per ottenere la libertà; mi sembrò che fosse dispersa dal debole soffio del vento. La lasciai perdere e concepii una supplica più umile. Anche questa supplica mi parve si dissolvesse nello spazio. “Almeno”, gridai quasi disperata, “mi sia concessa una nuova servitù!”

La campana suonò l’ora della cena. Discesi.

 

 

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