Fiaba di Chiara Masin

(Prima pubblicazione)

Illustrazioni di BDB

 

Arrivò la cornice. La sera stessa Adele la sistemò sul lungo tavolo del salotto e cominciò a dividere i pezzi del puzzle. Li mise in scatoline diverse, secondo le zone del disegno, separò il bordo, i pezzi azzurro acceso, quelli rosa shocking e quelli verde acido lasciando insieme i rimanenti colori. Se lo era comprata da sola. Usava farli con suo marito, Ennio, e soleva scegliere lui le immagini, difatti tutti i colori dei puzzle appesi alle pareti si intonavano con il mobilio della casa. Era il primo puzzle che Adele comprava da quando lui non c’era più. Immaginò un diverbio: avrebbero certamente discusso su dove appenderlo, quei colori sgargianti facevano a pugni con i toni sabbia, gli azzurri pallidi il bianco ed il nero della casa. Sollevò malinconica un labbro pensando che lui non lo avrebbe mai appeso.

Riguardò l’immagine che l’aveva catturata. Era la raffigurazione di una libreria fantastica a quattro scaffali. Le coste dei libri avevano colori accattivanti e facevano risaltare i titoli, scritti con caratteri diversi: gotici, a fronzoli, corsivi, stampatelli e antichi. I personaggi dei libri erano alti un quarto di costa e si muovevano davanti ai dorsi dei tomi. Una fila di bambini sperduti marciava verso la zingara danzante, una bambina con il suo daemon prendeva in mano il cerchio dell’uroboro, un unicorno si imbizzarriva di fronte ad un drago dalle ali spiegate che coprivano un titolo intero. E tanti altri. In mezzo a loro, sulla sinistra vi era una scura scala a pioli. Sopra ad essa, alta quanto due scaffali, era arrampicata una fata dalle ali trasparenti e cangianti in giallo, verde e rosa. Teneva una lanterna sollevata, alla ricerca di un titolo perduto.

Quello era proprio il titolo, scritto in un piccolo times new roman sul bordo corto della scatola del puzzle: La fata ed il libro perduto.

“Come sarebbe vivere in quella foto? In un’eterna ricerca.” Si era chiesta la donna.

 

Adele inserì l’ultimo pezzo della cornice, il bordo rettangolare era completo. Si mosse fino in cucina, si versò un bicchiere d’acqua da una bottiglia di vetro e andò a letto.

 

La camera era piena di quadretti grandi quanto una mano, i vetri riflettevano la luce della lampadina mentre Adele infilava a fatica il pigiama. Quelle ossa erano vecchie e i movimenti della gioventù erano anchilosati come le sue anche.

La stanza sembrava un santuario di piccole cornici.

Un santuario senza nomi.

Al loro interno vi erano solo piccoli dettagli dello sfondo. Una lieve luna a matita, qualche fiore e un prato ad acquerello. L’unica cosa che li accumunava era il vuoto centrale. In ogni quadro mancava il soggetto.

Apparivano tutti bianchi e vuoti.

Adele spense la luce e dormì serenamente.

 

«Nadia?» disse l’uomo.

«Ciao Robbi. Sono le sette e sto cercando di preparare i bambini. Che c’è?»

«Credo che la mamma abbia smesso di prendere le medicine.»

Roberto sentì gridolini e urla di un monello che non voleva lavarsi dall’altra parte.

«Ti richiamo dopo, ok?»

 

L’uomo si accese una sigaretta. Suo padre, Ennio, era venuto a mancare sei mesi prima. Morto all’improvviso, a settant’anni. I medici avevano dato la colpa alla guerra del 2035; da allora erano passati dieci anni e ancora non si poteva bere l’acqua del rubinetto. Dovevano obbligatoriamente prendere tre pillole al mattino per non ammalarsi. Oppure potevi essere sfortunato, come suo padre, ed essere sorpreso da un cancro fulminante. Quelle radiazioni non se ne andavano dalla terra, dal metallo e dalle costruzioni.

Finalmente Nadia lo richiamò.

«Eccomi! Dimmi, come lo sai.»

Roberto strinse le labbra. «Ho messo una telecamera nel salotto di mamma. Quella che usavi tu quando i bambini erano piccoli e li lasciavi con la baby-sitter.»

Sua sorella sospirò. «Ti avevo detto di non farlo.»

«Sono preoccupato. È sola.»

«Ed è un’adulta che ha perso suo marito. Come noi nostro padre. Falla vivere in pace!»

«Quindi non ti preoccupa che non prenda le medicine?»

«Beve l’acqua del rubinetto?»

«Credo proprio di sì. È sicuro che sia malata.»

«Le parleremo, va bene? E smetti di spiarla.». Sua sorella riagganciò.

 

Adele di guerre ne aveva vista più di una. Eppure, continuava ad avere una spinta disumana per la vita. Perché deve essere quella la risposta a tanto orrore.

Le medicine le aveva semplicemente dimenticate una mattina. Era successo due settimane dopo la morte di Ennio, aveva preso molti impegni con il volontariato per alleggerire il peso della mancanza.

Da allora era riuscita a vedere certe cose. Certe cose che non aveva mai più visto dai suoi sette anni.

Così aveva smesso completamente di usare tutte quelle pillole.

I quadri che prima riempivano il suo studio, quelli raffiguranti fate disegnate a matita e ad acquerello, avevano preso vita. Le fate al loro interno si muovevano. Scalpitavano per uscire.

Era rimasta stupita per un attimo. Ma la sensazione di qualcosa di antico e conosciuto solo nell’infanzia la confortò e le fece apparire normale quella situazione. Prese la prima cornice. La girò, sganciò i ferretti che bloccavano i pezzi insieme. La voltò ancora e sollevò il vetro. La fata era ancora sul foglio. Appoggiò un dito vicino alle sue mani. Il polpastrello venne afferrato da una stretta piccola e sottile. Delle dita minuscole si erano arpionate negli incavi delle sue impronte digitali. Sollevò la mano e l’intera fata uscì dalla carta rimanendo appesa al suo dito. Le ali cominciarono a frullare vivacemente. L’esserino trillava di gioia mentre le volava intorno. Nella sua lingua la stava ringraziando a profusione.

E così liberò tutte le fate.

Da allora metà della sua pensione andò nell’acquisto di quei quadri, quelle immagini, quelle anime imprigionate a cui dare libertà.

Il giorno dopo suo figlio Roberto andò a pranzo da lei.

La criticò. Le ribadì di prendere le medicine. Uscì furioso dopo aver visto tutti quei quadri vuoti appesi in camera sua. “Il ragazzo davvero non capisce.” E continuò ad andare avanti con il suo puzzle.

 

La figura della fata era finita. Ma non era ancora “viva”. Doveva completare l’opera. Ci lavorò alacremente tra un lavoretto di volontariato in parrocchia e una stesa di tagliatelle per Nadia e i bambini.

 

Dopo due giorni, il puzzle di mille pezzi era finito.

La fata uscì dal quadro. Al suo posto rimasero solo la lanterna, appoggiata a uno scaffale e i titoli dei libri, non più celati dal suo vestito velato. La ringraziò. Era più grande delle altre fatine e aveva ali più larghe. Pareva sua nipote dall’altezza, non sembrava un colibrì come le altre. Era una Maggiore, le disse, e voleva fare qualcosa per lei. «Io sto bene. Sto facendo bene.» rispose Adele ripensando ai quadri in camera, dove i vuoti erano pieni.

La lasciò volare via.

Si era dimenticata di farle quella domanda: come è cercare un libro perduto per l’eternità?

 

«Nadia! Ti dico che sta impazzendo. La stanza da letto sembra cimitero senza facce! Foto vuote. Davvero, sicuro è infetta e sta dando di matto.»

«E noi che ci possiamo fare? Costringerla forse?»

«Sì. Dovremmo.»

«Lascia perdere Robbi, è più testona di te.» Nadia lo salutò e chiuse la chiamata.

Roberto ripensò a quei quadretti storti, le cornici vuote che lo fissavano oblique. Venne scosso da un brivido. In quel momento decise cosa fare.

 

Suo figlio tornò a pranzo. Sembrava essere nervoso. Il lavoro, disse, gli stava dando dei pensieri. Le diede una mano a fare i piatti e versò l’acqua nei bicchieri. Adele ne rimase piacevolmente stupita, considerando che di solito si sedeva e basta.

 

Da quel pomeriggio Adele smise di vedere le fate.

 

Iniziò un periodo lugubre per lei. Triste e fosco come mai prima. La luce fatata dell’infanzia l’aveva abbandonata un’altra volta.

Roberto veniva a pranzo tutti i giorni. Eppure, lei non aveva più nemmeno la voglia di cucinare e lui faceva per entrambi.

Non aveva più forze per andare in parrocchia a fare volontariato. Nemmeno la voglia di lavarsi.

Lei era sola.

Non sospettava neanche lontanamente che suo figlio le sbriciolasse le pastiglie nel pasto.

 

Una notte pensò di togliersi la vita.

Che senso aveva? Si chiese. Intrappolata tra quattro mura, il fisico che si stancava facilmente, tutto quel vuoto volontariato zeppo di buoni propositi che alla fine erano solo egoistici? I suoi figli erano grandi e avevano le loro vite. A cosa serviva lei dopotutto? Aveva già vissuto.

 

Per tre giorni di fila, durante le visite del figlio, sentì qualcosa di strano. Una volta suo figlio ruppe uno dei piatti, già pieno di cibo. Dovettero buttarlo per evitare le schegge di ceramica. Suo figlio se ne andò prima e Adele bevve una zuppa pronta seduta sul divano. La seconda volta suo figlio si tagliò con un coltello mentre faceva a cubetti le verdure. Adele lo disinfettò e mise una garza sul taglio profondo. Cucinò lei per entrambi. La terza volta invece l’acqua non volle bollire, proprio non ne voleva sapere. Suo figlio guardò il gas: c’era fiamma. Pensò che ci fosse un qualche tipo di problema con i tubi e chiamò l’ente interessato. Alla fine Adele dovette uscire e comprare un’insalatona già pronta al minimarket sotto casa pur di non far tornare Roberto al lavoro a stomaco vuoto. Per tre giorni, aver fatto qualcosa, seppur poco, le riaccese la speranza, ma svanì sempre poco dopo, nella delusione di un incompiuto, di una mancanza che creava solo più vuoto.

 

Quella notte una luce apparve dalla finestra. Era così forte da oltrepassare la tenda. La stanza era illuminata a giorno. Non poteva essere il vecchio lampione esterno. Adele tolse le coperte, si alzò lentamente stringendo le labbra, l’autunno era diventato inverno e l’inverno non aveva pietà per le sue ginocchia.

Sollevò un lembo della tenda. Strabuzzò gli occhi. Spostò del tutto il tessuto annodandolo sul lato destro dell’infisso.

Le fate! Tutte le fate che aveva liberato erano disposte in una schiera fitta davanti a lei! Quelle piccole e grasse, altre lunghe e secche, alcune perfette. C’erano tutte! Aprì la finestra. Tolse la zanzariera. Erano tornate!

La fata Maggiore era davanti a loro. Fu lei a parlare: «Abbiamo deciso di farti un regalo.».

Adele non poteva sapere che gliene avevano già fatto uno impedendo alle pillole di raggiungere il suo piatto per tre giorni.

«Che la tua luce possa non spegnersi mai.» disse la fata Maggiore. Loro sentivano i veri desideri, loro sapevano cosa c’era davvero nel cuore di Adele. Quella spinta alla vita doveva continuare a brillare.

La camicia da notte sparì e al suo posto Adele scintillò in una veste semitrasparente non sua. Indossava un corpo che era stato suo, ma ben cinquant’anni prima. Le smagliature erano sparite, i seni pesanti e abbattuti dalla gravità tornarono piccoli e sodi. Le fate la stavano trasformando in una di loro. Sbatté le ali. Erano grandi e colorate di luce. Il suo metro e settanta si ridusse a un proporzionato metro, pari alla fata Maggiore. Adele guardò le fate con aria interrogativa: era stupita, ammaliata, ma non capiva come mai stesse succedendo. La fata Maggiore si spiegò: «Tutti ci vedono quando sono fanciulli.» piroettò e le giunse vicino, appoggiò la sua veste bianca argentata a terra «tu, tu però sei riuscita a vederci in età adulta. Non ti sei lasciata condizionare da ciò che vi hanno raccontato, vi obbligano a smettere di credere. Le medicine da cui voi uomini dipendete servono a costringervi in un campo visivo limitato, limitatissimo rispetto a ciò che vi circonda. Hai tolto da sola i veli dagli occhi. E ci hai liberato. Guardaci.». Si spostò di lato e con un palmo rivolto al cielo indicò la finestra stellata di fate. «Ci hai liberato tutte. Per questo ti offriamo il nostro regalo più prezioso. Non solo ci vedrai. Sarai una di noi.»

Adele sorrise come non capitava da tanto. Percepì le sue membra leggere, la magia le copriva la pelle solleticandola come un batuffolo di cotone. Sbatté le ali come se le appartenessero da sempre e se ne andò con loro.

 

«Nadia, ti giuro, la mamma è sparita.»

«A me non risponde al telefono.»

«Manca a casa da due giorni. Io chiamo la polizia.» concluse Roberto.

«Aspetta… Le medicine gliele davi tu?»

«Certo.»

«L’hai vista bere dal rubinetto?»

«Papà lo faceva sempre.»

«Beh, non è detto lo faccia anche la mamma.»

Roberto rimase silente un momento. Poco dopo aggiunse: «E se non fosse l’acqua il problema… se fossero le medicine?» chiese Roberto.

«Da quando gliele hai date è cominciata la depressione…»

 

Roberto rischiò un infarto sulla sedia dell’ufficio quando comparvero dal nulla, sui fogli sparsi sopra alla scrivania, parole scritte in un corsivo grazioso, i caratteri parevano pirografati:

“Vivi cercando in eterno un libro perduto. La risposta sta n”

E il messaggio si interruppe dove finivano i fogli. Continuava sulla scrivania, ma scuro su scuro era illeggibile. Roberto sentì solo, vicino alla guancia, come un battere di leggerissime ali.

 

Se foste sgombri e il vostro corpo pulito da ogni sostanza sintetica che vi hanno portato ad ingoiare, potreste leggere queste righe finali. Potreste sentire le urla della fata a quello che prima era suo figlio, Roberto. Voi potreste leggere il suo monito.

Vivi cercando in eterno un libro perduto. La risposta sta nel credere. La magia esiste.