RACCONTICOMPLEANNO – a cura di “TOTO”

Oggi nacque Ian McEwan 21 GIUGNO 1948

 

Spesso mi capita di domandarmi se scrivere stia diventando più facile. Temo che la risposta sia no. A quanto pare scrivere non è un’attività che si semplifica con l’andare del tempo; non è possibile «buttare giù» un romanzo solo perché fai questo mestiere da qualche decennio. Certe volte mi pare che la questione si riduca a un problema di forma fisica: scrivere richiede un’enorme quantità di energia. Invecchiare non aiuta. È fondamentale convincersi di avere tra le mani qualcosa di nuovo, di fresco, qualcosa che sia decisamente diverso da tutto ciò che l’ha preceduto, anche se può trattarsi solo di un’illusione. Poi naturalmente occorrerà scavare più a fondo ogni volta e compiere ricerche accurate per arrivare a un materiale che non assomigli a quello già utilizzato. Con il passare degli anni sai sempre qualcosa di più sulle tue abitudini mentali, sulla struttura dei tuoi pensieri. Diventi molto scettico e vuoi evitare il più possibile di ripeterti. Continuo a credere che tra un romanzo e l’altro sia necessario inserire un pezzo di vita; mi pare che ogni romanzo debba essere scritto da una persona leggermente diversa.

lan McEwan, Bbc Radio 3, novembre 2000.

 

L’INVENTORE DI SOGNI

Due parole su Peter

 

Quando Peter Fortune aveva dieci anni, i grandi dicevano che era un bambino difficile. Lui però non capiva in che senso. Non si sentiva per niente difficile. Non scaraventava le bottiglie del latte contro il muro del giardino, non si rovesciava in testa il ketchup facendo finta che fosse sangue, e neppure se la prendeva con le caviglie di sua nonna quando giocava con la spada, anche se ogni tanto aveva pensato di farlo. Mangiava di tutto, tranne, s’intende il pesce, le uova, il formaggio e tutte le verdure eccetto le patate. Non era più rumoroso, più sporco o più stupido degli altri bambini. Aveva un nome facile da dire e da scrivere e una faccia pallida e lentigginosa, facile da ricordare. Andava tutti i giorni a scuola come gli altri e senza fare poi tante storie. Tormentava sua sorella non più di quanto lei tormentasse lui. Nessun poliziotto era mai venuto a casa per arrestarlo. Nessun dottore in camice bianco aveva mai proposto di farlo internare in un manicomio. Gli pareva, tutto sommato, di essere un tipo piuttosto facile.

Che cosa c’era in lui di così complicato?

Fu solo quando era ormai già grande da un pezzo che Peter finalmente capì. La gente lo considerava difficile perché se ne stava sempre zitto. E a quanto pare questo dava fastidio. L’altro problema era che gli piaceva starsene da solo. Non sempre naturalmente. Nemmeno tutti i giorni. Ma per lo più gli piaceva prendersi un’ora per stare tranquillo in qualche posto, che so, nella sua stanza, oppure al parco.

Gli piaceva stare da solo, e pensare i suoi pensieri.

Il guaio è che i grandi si illudono di sapere che cosa succede dentro la testa di un bambino di dieci anni. Ed è impossibile sapere di una persona che cosa pensa, se quella persona non lo dice. La gente vedeva Peter sdraiato per terra un bel pomeriggio d’estate, a masticare un filo d’erba o a contemplare il cielo. «Peter! Peter! A che cosa pensi?» gli domandavano. E Peter si rizzava a sedere di soprassalto dicendo: «A niente. Davvero!» I grandi sapevano che nella sua testa qualcosa doveva pur esserci, ma non riuscivano né a vedere né a sentire che cosa. Dirgli di smettere non potevano, non sapendo che cosa stesse facendo. Magari stava pensando di dare fuoco alla scuola, o di dare sua sorella in pasto a un alligatore, o di scappare di casa a bordo di una mongolfiera, ma loro non vedevano altro che un ragazzino tutto preso a contemplare il cielo senza battere ciglio, un ragazzino che, se qualcuno lo chiamava, neppure rispondeva.   Quanto a stare per conto suo, be’, neanche quello ai grandi andava giù. A mala pena sopportano che lo faccia uno di loro. Se ti unisci alla compagnia, la gente sa che cosa ti passa per la mente. Perché è la stessa cosa che sta passando per la mente degli altri. Se non vuoi fare il guastafeste, devi unirti alla compagnia. Ma Peter non la pensava così. Non aveva niente in contrario a stare con gli altri quando era il caso. Ma la gente esagera. Anzi, secondo lui, se si fosse sprecato un po’ meno tempo a stare insieme e a convincere gli altri a fare lo stesso, e se ne fosse dedicato un po’ di più a stare da soli e a pensare a chi siamo e chi potremo essere, allora il mondo sarebbe stato un posto migliore, magari anche senza le guerre.

A scuola Peter spesso lasciava Peter seduto nel banco, mentre la sua mente partiva per lunghi viaggi, ma anche a casa gli era capitato di avere delle noie per quei sogni a occhi aperti. Un Natale il padre di Peter, Thomas Fortune, stava sistemando le decorazioni in soggiorno. Detestava fare quel lavoro. Diventava sempre di cattivo umore. Quella volta, doveva attaccare dei nastri in alto in un angolo. Be’, proprio in quell’angolo c’era una poltrona e seduto su quella poltrona a fare niente di speciale, c’era Peter.

– Non ti muovere, – disse Mr Fortune. – Adesso salgo sulla poltrona per arrivare al muro.

– Va bene, – disse Peter. – Fa’ pure.

Ed ecco Mr Thomas Fortune salire sopra la poltrona, e Peter salire in groppa ai suoi pensieri. A vederlo si sarebbe detto che non faceva nulla, ma in realtà era occupatissimo. Si stava inventando un modo emozionante di scendere dalle montagne con un attaccapanni e una corda ben tesa tra due pini. Continuò a pensarci mentre suo padre stava ritto sullo schienale della poltrona, ansimando e stirandosi per arrivare al soffitto. Come si poteva fare, pensava intanto Peter, per scivolare senza andare a sbattere negli alberi che tenevano la corda? Chissà, forse l’aria di montagna stuzzicò l’appetito di Peter. Fatto sta che in cucina c’era un pacchetto nuovo di biscotti al cioccolato. Non era bello continuare a ignorarli.

Peter non fece in tempo ad alzarsi che sentì alle sue spalle un orrendo frastuono.

E si voltò proprio mentre suo padre cadeva a testa prima nel buco tra la poltrona e il muro. Poi Mr Fortune riapparve, per prima la testa di nuovo. Sembrava deciso a fare Peter a pezzettini. Dall’altra parte della stanza, la mamma si teneva stretta la mano sulla bocca per non farsi sorprendere a ridere.

– Oh, scusa papà, – disse Peter. – Mi ero dimenticato che eri li.

 

 

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