Racconto di Antonella La Frazia

(Prima pubblicazione)

 

I pioppi si rincorrevano alteri e veloci ai lati della strada dileguandosi inghiottiti dalla terra, alle spalle della grossa auto nera.

Arianna fissava la striscia d’asfalto scura che le si srotolava davanti, mentre i pensieri s’infrangevano di qua e di là nella sua testa, susseguendosi incalzanti.

Ce n’era uno che la preoccupava molto, l’aver dovuto affidare il suo lavoro a quella bambola bionda di Valeria. Sperava solo di non dover rimediare a troppi danni al suo ritorno.

La fatalona bionda, non era certo stata assunta per la sua particolare intelligenza, ma per ben altre qualità, era molto brava a farsi notare, con quel suo passo equino, le sue curve burrose, le sue labbra che tracimavano dai bordi naturali per via del botulino, le sue scollature inguinali, abbondanti di silicone, gli occhi azzurri e le ciglia a ventaglio.

Ma era intoccabile perché da anni aveva una relazione col capo, lo sapevano tutti, anche lei, solo che il capo era suo marito. Arianna faceva finta di nulla, non aveva la forza, né la voglia di far scoppiare una bomba così grossa e di affrontarne le conseguenze. Finché le cose continuavano così per lei andava bene. La sua famiglia non veniva messa in discussione, Guido era un marito corretto ed un bravo padre, la loro situazione economica più che buona e lei non voleva turbare quel delicato equilibrio che si era creato, rischiando di far crollare tutto ciò che aveva costruito.

Tutto sommato per lei Guido era solo il padre dei suoi figli, quasi un fratello, le rare volte che facevano l’amore per Arianna era solo una faccenda da sbrigare come tante, possibilmente in fretta.

Ora erano restati solo loro in casa. Marialuisa, sua figlia maggiore, era andata in Inghilterra per un master. Era sempre stata molto brava negli studi, sapeva ciò che voleva ed era ambiziosa come suo padre.

Suo figlio Luca era ancora al secondo anno d’architettura, ma aveva dato solo pochi esami. Era voluto andare a Milano e si era creato un bel giro d’amici figli di gente bene che sapevano divertirsi.

Lei e suo marito si limitavano a vivere sotto lo stesso tetto, con le loro regole, con i loro turni per lavare i piatti o per passare l’aspirapolvere, con le loro due vite che a volte s’incrociavano, ma non si univano mai per percorrere un po’ di strada insieme. Però andava bene così, in fondo non le mancava nulla.

Arianna seguiva la statale ed il suo destino come fossero cammini ineluttabili.

Al primo bivio prese la stradina a sinistra che strisciando si arrampicava su per la montagna, quella che portava indietro, alla sua infanzia, in un piccolo borgo fra i boschi, vicino ad un laghetto di montagna, dove andava spesso da bambina.

Dopo mezz’ora di tornanti scorse fra le cime degli alberi, la punta azzurra e aguzza del campanile. Era tornata a casa. Percorse la strada stretta fra piccole case in legno, dai tetti spioventi e dai gerani rossi alle finestre ed ai balconcini, i giardini curati, recintati da una staccionata in legno, il cane, l’orto nascosto dietro la casa, la signora che stendeva il bucato o puliva i vetri. Tutto era rimasto uguale, fermo, come l’orologio del campanile che segnava da sempre le otto e trenta.

Vide spuntare casa sua da dietro gli alberi, la staccionata, ormai quasi inesistente, delimitava ciò che restava di un giardino, che aveva ancora un ricordo di bellezza. Il roseto mezzo sfiorito lottava con le piante infestanti, ma il grande gelso era sempre lì, con un’approssimativa forma ad ombrello, che gli era stata data molto tempo prima ed ai cui rami si dondolava, spinta da un tiepido vento, un’altalena semplice fatta con la corda e un’asse. Alle spalle una baita in legno scuro un po’ rovinato, con le due finestre ai lati della porta d’ingresso, che la guardavano come due grandi occhi.

La ritrovava dopo tanti anni e la rivedeva come quando era bambina.

Era dovuta andare via da ragazzina perché suo padre aveva trovato lavoro in città, un posto fisso con un buono stipendio. Ma da allora per lei tutto era cambiato, la vita l’aveva presa e le aveva imposto i suoi ritmi, aveva scelto per lei.

Per qualche tempo era tornata per le vacanze estive insieme ai genitori.

Poi era cresciuta e non era tornata più, come se quel posto per lei non fosse mai esistito.

Ora era lì, in piedi davanti alla porta. Guardandosi intorno si rivedeva sull’altalena con quel suo vestitino a fiori rossi che tanto le piaceva, le ginocchia sbucciate ed un cerchietto colorato per reggere i capelli. Con lei il suo cane, che la seguiva ovunque, un piccolo meticcio dal pelo nero e arruffato, che contava fra i suoi avi non si sa quante razze diverse.

Entrò in casa, tutto era restato immutato, solo la polvere, col suo velo opaco pareva voler nascondere ogni cosa, come i suoi ricordi, che ora stavano riaffiorando dalla polvere del passato. Di fronte a lei il grande caminetto che d’inverno riuniva attorno a sé la famiglia, come un benevolo nonno e, col suo abbraccio caldo, li coccolava. Ora tutto le appariva vuoto senza motivo d’esistere.

Anche lei, come quel caminetto, si sentiva spenta e vuota, aveva freddo, ma non quel freddo che si ferma sulla pelle, facendo rabbrividire, ma un freddo più profondo, che viene da dentro. Si rivedeva davanti al camino, seduta sulle ginocchia di suo padre ad ascoltare estasiata i suoi racconti.

Rivedeva sua madre seduta al tavolo chiacchierare con la nonna o con le vicine e suo fratello più piccolo su di una coperta stesa sul pavimento, che giocava.

Tutto era così semplice, il lavandino, la cucina, un tavolo, qualche sedia spaiata, una credenza e qualche mensola per i piatti e le pentole. Niente lavastoviglie, nessun frigorifero, c’era la cantina, nessuna lavatrice si lavava alla grande fontana, nessun lusso inutile, solo l’essenziale. Però allora non aveva freddo e si divertiva a giocare con suo fratello.

Già, suo fratello, chissà dov’era adesso Marco. Aveva voluto frequentare il conservatorio, amava suonare il pianoforte. Era sempre stato alla ricerca di qualcosa, il suo Eldorado.

Un giorno tornò a casa, fece le valigie e partì per suonare su di una nave da crociera. Si fece vivo qualche volta, poi sempre più raramente, finché sparì, forse ancora cerca la sua terra promessa.

“Dio quanto mi sei mancato e quanto mi manchi ancora!”

Sussurrò Arianna, seguendo i suoi pensieri e la sensazione di freddo si fece più pungente.

Si diresse in camera, il letto in legno scuro aveva ancora per materasso due sacconi riempiti di lana. Nella stanza oltre al letto c’erano i due comodini, una cassettiera ed un armadio ad una sola anta con uno specchio esterno ormai ossidato.

Arianna vi si specchiò e questo rimandò un’immagine sfuocata, come immersa nella nebbia. Si rivide quando, ancora bambina, aiutava sua madre e sua nonna a cardare la lana.

Ogni estate si svuotavano i sacconi sul pavimento e si allargavano tutte le ciocche di lana una ad una, in un ripetitivo rituale, fino a sera, quando si riempivano i sacconi che diventavano gonfi e morbidi.

Si riprese dai suoi pensieri e si ricordò che era venuta per sistemare la casa e poterla vendere. Ora che era morta anche la mamma quella casa era rimasta a lei, mentre l’appartamento in città al fratello, se mai si fosse deciso a tornare.

S’impose di non pensare più al passato e di darsi da fare.

Lavorò per tutto il giorno, riuscendo a dare a quella casa un aspetto dignitoso, aveva tolto le ragnatele e pulito ogni cosa, dai pavimenti ai mobili, ai vetri. Aveva aperto la vecchia cassapanca ed aveva ritrovato le lenzuola e le tendine ricamate di sua nonna, aveva rifatto il letto, messe le tende e pure qualche centrino, ma mancava qualcosa che lei ricordava esserci sempre stato.

La casa era triste, anche lei aveva freddo, aveva perso quel caldo abbraccio che l’avvolgeva quando viveva là con i suoi. Ripensava alla sua vita senza alcun senso, alla sua solitudine anomala, i figli lontani e lei che continuava la sua commedia. Che valore aveva la sua vita allora? Se fosse morta ora, il suo epitaffio sarebbe stato:

“Aveva una vita tranquilla, ma ha dimenticato di viverla.”

Preferì andare a dormire per non pensare più.

I primi raggi di sole penetrarono dalle fessure che si erano create nelle ante ormai vecchie e, come lame luminose, attraversarono la stanza accendendo d’oro i granelli di polvere che galleggiavano nell’aria.

Arianna si svegliò serena come non lo era più stata da tempo e, nonostante fosse presto, si sentì riposata.

Si rivestì in fretta e corse fuori verso il lago, che era poco distante da casa sua, percorrendo una scorciatoia ciottolosa, che attraversava il boschetto e dove il sole filtrava in fasci di luce velata, attraverso i rami degli alberi.

Eccolo lì, in fondo alla valle, fra gli immensi fusi di conifere che ne abbracciavano l’intero perimetro, verde smeraldo, punteggiato dagli schizzi brillanti dei raggi di sole, che si tuffavano nell’acqua.

Ritrovò quel mondo incantato, capovolto in quel lago, che da bambina l’aveva sempre affascinata. Si tuffava in quel cielo d’acqua e sognava che lì sotto, in quel piccolo abisso, un altro universo sognasse lei.

Da bambina immaginava un regno di magia, di fate e di gnomi, ora aveva capito che la magia era proprio quel posto. Si spogliò ed entrò lentamente in acqua, lasciando che quel liquido elemento le scivolasse addosso inghiottendola silenzioso, si lasciò andare tranquilla, accolta da una madre primordiale.

Nuotò in quel sogno e capì che quello era il suo mondo, senza più compromessi, senza finzioni, solo vivere una vita limpida come quell’acqua.

Uscì e si lasciò asciugare al sole. Non aveva fretta, sarebbe restata lì in quella casa accanto al lago dove si sentiva libera. Sdraiata al sole, mentre il vento le carezzava la pelle facendola rabbrividire, si rese conto di non avere più freddo.

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