Racconto di Chiara Checchini

(Prima pubblicazione)

 

 

Du du du du du.

Un jingle apre.

Poi una voce metallica, ipnotica, fa un annuncio e si accomiata con arigato gozaimasu – le uniche due parole che siamo in grado di decifrare.

Ripete lo stesso messaggio, a cadenza regolare, a distanza di una manciata di secondi.

… arigato gozaimasu.

All’imbocco del sentiero non c’è nessuno, oltre a me e Luca. Ci inerpichiamo sulla sterrata fangosa, seguendo cartelli in legno con incisi caratteri incomprensibili. A tenerci compagnia la seggiovia, che sferraglia invisibile sopra di noi, cancellata dalla nebbia.

… arigato gozaimasu.

«Sembra di stare dentro un film di fantascienza», commento.

«Sì, uno di quelli distopici. Gli escursionisti sono pregati di non lasciare per nessun motivo i sentieri tracciati e in particolare di non avventurarsi nei boschi. Ne va della loro incolumità. Grazie mille», dice Luca, imitando il tono artificiale della voce.

… arigato gozaimasu.

Mi mordo il labbro.

 

Luca tira fuori la cartina dallo zaino e al bivio prende la via più ripida, inghiottita dal nulla pochi metri più sopra. Le nuvole sembrano brandelli di lana bianca. Si muovono lente, a scatti, si impigliano tra le rocce, si lacerano e si ricompongono.

… arigato gozaimasu.

«Vedremo qualche scorcio di panorama prima o poi?» sbotto dopo un’ora di camminata.

Luca alza le spalle.

«È estenuante!»

Saliamo ancora, attraversando infinite distese di arbusti di bambù nano.

Su una grossa pietra a pochi passi dal sentiero noto le corna di un cervo. Mentre affondo i piedi tra i cespugli impregnati della pioggia della notte intravedo una macchia nera che guizza, per poi sparire dietro un tronco.

Resto immobile. «Hai visto?» chiedo con un filo di voce.

«Cosa?»

«Era una vipera, ne sono certa!» afferro il corno e mi precipito sul sentiero, tra le risate di Luca.

 

Dopo una massacrante ascesa su catena fissa arriviamo in cima a un picco. Sul cartello, accanto ai soliti ghirigori è indicata l’altezza: 1710 metri. Ci siamo lasciati alle spalle le nuvole, sono rimaste appiccicate alle colline, come una glassa bianca.

 

Luca si avventura su una traccia appena abbozzata. È una delle sue fisse, piantare bandierine immaginarie sul cocuzzolo più alto. Quando arriva in cresta si sbraccia. Tra i pinnacoli, poco distante da lui vedo una figura seduta su uno sperone di roccia. È così immobile ed eterea da sembrare incorporata nel paesaggio.

«C’è il cadavere di un vecchio, qui sulla pietraia!» urla Luca e torna giù a rotta di collo.

Ho un leggero giramento di testa, mi appoggio a un masso ad aspettarlo. Stralci di nuvole hanno raggiunto il picco, avvolgono il cartello, cancellano la sagoma di Luca che incede verso di me, con il cellulare stretto nella mano.

«Dobbiamo chiamare i soccorsi. Proseguiamo finché non troviamo campo.»

 

Scolliniamo, nuovamente diretti nel mezzo della fitta nebbia lattiginosa.

Sopra di noi fischiano i rapaci, il vanto della valle di Iya.

«Era a pochi metri da me. Le braccia mi hanno colpito, erano rosse di escoriazioni… Spuntavano dalle maniche chiare ed erano piegate sulla testa, per proteggersi», dice sommesso.

«Credi che sia scivolato?» domando.

«Chi lo sa? In fondo questo non è un brutto posto per mettere fine ai propri giorni.»

Il banco è così denso che mi arriva solo la sua voce.

«C’era un’altra persona sulla cima», dico dopo un po’.

«Io non ho visto nessuno.»

«Era vestita di bianco, si confondeva con le nuvole.»

«Forse per questo non l’ho vista.»

 

Dopo estenuanti saliscendi, seguendo passo passo la cartina arriviamo al bivacco, un parallelepipedo scuro a mollo nelle nuvole. Non c’è campo nemmeno qui, non riusciamo ad avvisare nessuno.

Un uomo dalla testa argentata, con indosso una sdrucita maglia bianca e un paio di pantaloni strappati, si gode il fresco sulla panca fuori dal rifugio, tra brandelli di nuvole che lo fanno sembrare impalpabile. Prendiamo posto accanto a lui.

 

Qualcosa si muove sul pendio sottostante.

È vicino, vicinissimo.

Tendiamo l’orecchio.

Versi, sbuffi, schianti, rumore di zoccoli e di sassi che franano, attutiti dal pulviscolo brumoso.

L’anziano indica le corna di cervo che ho legato allo zaino, poi punta il dito verso la montagna invisibile. Piega indice e medio di entrambe le mani a uncino e poi prende a picchiettarli, gli uni contro gli altri.

Gli sorrido, grata per avermi svelato il mistero.

Mi sorride di rimando scoprendo le gengive sdentate.

«Dietro queste quinte bianche ci sono dei cervi che combattono», dico a Luca.

«Suggestivo, potrei stare qui ore a immaginare lo spettacolo.»

 

Una invisibile alba sorge sul secondo e ultimo giorno del nostro trekking.

Ci mettiamo subito in marcia, ancora stanchi per la notte. I nostri sottili materassini non sono riusciti a attutire la durezza delle assi di legno.

Dell’anziano non c’è traccia, non l’abbiamo visto entrare né uscire dal bivacco.

Attraversiamo il consueto paesaggio appesantito dalle nuvole, e giunti all’altezza di un valico, scorgiamo una figura procedere sul sentiero del giorno prima.

«È il vecchio dei cervi», commenta Luca.

 

«Ci siamo!» grido ascoltando la consistenza della strada asfaltata sotto le suole degli scarponi.

Per la prima volta da quando lo conosco, Luca è titubante. Continua a rileggere il passo della guida dove è indicato l’imbocco dell’ultima tratta del sentiero. La descrizione non gli sembra corrispondere al luogo in cui ci troviamo.

«Perché non prendiamo la statale?» propongo indicando la lunga striscia nera che riporta alla civiltà.

«Troppo lungo, tagliamo per di qua.»

Lo seguo senza entusiasmo su un’ampia sterrata che a poco a poco si stringe, inoltrandosi nel fitto di un bosco di latifoglie.

Il pendio è scosceso e la terra bagnata, continuo a scivolare. Tronchi caduti, rami spezzati, massi franati ostruiscono il passaggio. Siamo soli sul vecchio sentiero, ormai caduto in disuso e abbandonato a sé stesso. Il tragitto, offuscato dall’umidità, è indicato da nastri rossi, legati intorno ai rami degli alberi.

 

Luca è inquieto. Si guarda intorno con gli occhi sbarrati.

«Gaia, cerca di fare più in fretta. Questo posto mi dà i brividi», mi dice deglutendo.

Io avverto solo stanchezza, torpore e dolore alle natiche per le continue cadute.

«Più veloce di così non riesco!» ribatto estenuata.

«Sforzati, ho una strana sensazione…»

Schiocco la lingua infastidita.

 

Procedo piano, attenta a non slittare sulla palta argillosa finché non realizzo di averlo perso di vista.

«Luca!» grido in panico, cercandolo nella cappa grigia.

Accelero il passo, seguendo i nastri di plastica ormai sbiaditi e sfilacciati. Poi lo vedo, dietro un avvallamento. È chino a terra, guarda qualcosa.

Lo raggiungo, mi stringe il braccio. «Andiamo!» mi dice brusco, alzandosi.

Noto una serie di oggetti, disposti in ordine sotto una grossa pietra. Un paio di scarpe da ginnastica, degli occhiali da vista e un quaderno, tutti rivestiti di una patina di terra e muschio.

«Non guardare», bisbiglia prendendomi tra le braccia.

Oltre la sua spalla intravedo una figura che pende da un enorme albero. È una donna. Attraverso la foschia distinguo una massa di capelli neri che ricade in avanti sull’abito chiaro.

Dischiudo le labbra come per dire qualcosa ma le parole mi si bloccano in gola.

«Andiamo», sussurra Luca.

Non riesco a staccare gli occhi da quella sagoma che oscilla lievemente, appesa a una corda.

Luca mi trascina via.

«Concentrati sui tuoi passi, ok?» mi dice con la voce che trema.

Camminiamo svelti, senza girarci, senza parlare, per un tempo imprecisato.

 

Luca si ferma e consulta la cartina. «Qualcosa non torna, dovremmo già aver raggiunto il fiume!»

Io mi trascino stordita, attenta a evitare qualsiasi pensiero.

«Tagliamo per di là», dice.

Affondiamo fino alle ginocchia nel fogliame bagnato, tra alberi dall’aria sinistra, ma dopo pochi metri siamo costretti a tornare indietro, sotto di noi c’è una parete di roccia impraticabile.

Ritroviamo subito i fiocchetti rossi e ci incamminiamo.

«Hai sentito?» si gira di scatto.

Scuoto la testa.

«Andiamo», mi mette fretta tendendomi la mano tremante.

 

Il tratto di bosco che stiamo attraversando è monotono come accade di rado.

«Dannazione! Non capisco, mi sembra di girare in tondo… Dovremmo già essere arrivati a questo maledetto fiume!» commenta consultando la mappa per l’ennesima volta. È terribilmente pallido e il sudore gli imperla la fronte.

 

Appena il pendio si ammorbidisce tentiamo nuovamente di tagliare.

La terra è viscida sotto le vecchie foglie macilente, perdo l’equilibrio e slitto, battendo la schiena con violenza.

Punto i talloni ma non riesco a fermarmi. Mi prende una vertigine.

Tutto scorre frenetico, color ghianda in basso, verde compatto in alto.

Mi incaglio in qualcosa di duro: sento dolore a una coscia, i pantaloni si squarciano ma non smetto di scivolare.

Affondo con più forza i piedi nel terriccio e dimeno le braccia finché non trovo un appiglio.

Aggrappata all’esile tronco di una betulla ascolto il mio cuore che batte mentre riprendo fiato.

 

Qualcosa fruscia dietro le mie spalle, vedo dei sassi rotolare e li seguo fino al loro salto nel vuoto.

Mi si gela il sangue. Siamo appena sopra il margine del burrone. Finito il tappeto scuro del sottobosco c’è il bianco del cielo.

«Aiutoooo!!!»

Luca mi scivola accanto.

«Aggrappati a qualcosa!» gli grido mentre lo vedo sparire.

Sento un tonfo, un grido soffocato e poi più nulla.

«Lucaaaaa!» le lacrime mi annebbiano gli occhi.

Faccio leva sul tronco e mi metto in piedi ma sotto i pantaloni scuri di sangue la gamba pulsa.

Solo allora noto una figura offuscata, che pare un tutt’uno con il paesaggio.

Una ragazza giovanissima, vestita di bianco, con i capelli sciolti sulle spalle se ne sta seduta immobile con le ginocchia al petto e lo sguardo perso.

«Lucaaaa!» grido ancora.

Il silenzio intorno è interrotto dallo scrosciare del torrente, che non sembra più così distante.

«Lucaaaa!»

Lei si volta verso di me e scuote la testa. I suoi piedi nudi sembrano d’avorio.

Il respiro si inceppa. Abbandono la presa e mi avvicino alla scarpata. Devo vedere.

Un passo incerto e di nuovo ricomincio la corsa irresistibile verso il basso.

Mulino le braccia ma non trovo appigli e precipito.

 

È una sospensione bianca, bianca e fresca.

Sembra eterna ma termina all’improvviso, sulla pietra nera che luccica.

Lo schianto, un rumore come di rami spezzati.

Il rumore del dolore.

Il sangue mi riempie la gola e io non –

 

Dischiudo gli occhi.

Sono stesa a terra, la testa appoggiata sulle ginocchia di Luca. L’eco delle sirene rimbomba nella valle, negli orecchi.

Luca mi accarezza i capelli e mi sorride. Mi metto seduta e lo abbraccio.

La ragazza è sempre lì, il suo sguardo si sofferma per qualche istante su di noi, poi torna al torrente.

Giù in basso, la filigrana di nuvole in movimento è bucata da lampeggianti blu e da piccoli omini fluorescenti che armeggiano con due lettighe, accanto a un ponte.

 

Luca è inquieto, si mette in piedi e mi tende la mano.

Senza alcuna fatica risaliamo il pendio e ritroviamo la vecchia traccia, i soliti brandelli di nastro scolorito.