Racconto di Gessica Pegoraro

(Prima pubblicazione)

 

Quando ero entrata in salotto quasi non avevo visto la nonna: era così sprofondata nella poltrona da sembrare quasi risucchiata dalla tappezzeria, bloccata in una posa e in tempo immobili.

“Oggi ha una giornata grigia” mi aveva sussurrato in un orecchio il nonno “Tutta questa gente e questa confusione non le fanno bene” aveva aggiunto, spingendomi verso di lei.

“Ciao nonna” le avevo detto, posandole una mano sulla spalla.

Lei si era voltata verso di me sospirando e strizzando gli occhi, come se stesse faticosamente riemergendo da un mondo parallelo e ovattato. Io le avevo sorriso e lei, dopo avermi messa a fuoco, si era illuminata “Francesca, tesoro che bello vederti”.

L’avevo abbracciata con delicatezza, inspirando a fondo il suo buon profumo di violetta, che mi aveva accompagnata durante tutti i pomeriggi d’infanzia passati a casa sua.

“Allora, come stai? Come va con la scuola?” mi aveva chiesto speranzosa.

Aveva sempre nutrito grande fiducia nelle mie capacità e quindi mi dispiaceva dirle che stavo lottando invano con un esame di Diritto Romano che bloccava il mio percorso universitario, di cui peraltro non ero più molto convinta. Così le risposi solo “Come al solito, sono sempre a Giurisprudenza”.

“Giurisprudenza?” chiese lei stupita “Ma quando hai finito il liceo?”

Prima che potessi risponderle il nonno le mise una mano sulla schiena, conducendola verso la sala da pranzo “Andiamo Lidia, tutti gli altri sono già a tavola e ci stanno aspettando per mangiare”.

“Ma perché sono tutti qui?” chiese lei.

“Perché è Natale” rispose il nonno, lanciandomi un’occhiata molto eloquente “Dai Francesca, vieni anche tu”.

Il suo tono, come al solito, non ammetteva repliche, così li avevo seguiti nella stanza dove ci aspettavano i miei genitori, mio zio e i suoi figli.

Ci eravamo seduti ed erano iniziate le solite domande di rito su lavoro, scuola e amenità varie, intervallate dal rumore delle posate e dal tintinnio dei bicchieri.  Nonno dirigeva la conversazione con lo stesso piglio sicuro con cui aveva gestito la famiglia e il reparto di stampaggio di cui era stato responsabile per vent’anni.           “Mi chiamo Primo, quindi mi piace arrivare primo in tutto ciò che faccio” era solito dire, facendo intendere chiaramente, dietro i modi cortesi, di non tollerare né rifiuti né fallimenti da parte dei suoi interlocutori. Mediocrità e insubordinazione non gli appartenevano e, di conseguenza, non dovevano appartenere nemmeno a noi.     Per questo di fronte alla diagnosi di demenza senile fatta alla moglie aveva reagito più con insofferenza che preoccupazione, e da allora aveva costruito intorno alla loro casa una sorta di barriera, fatta non solo per proteggere ma anche per nascondere questa improvvisa vulnerabilità.

Ora sedeva come sempre a capotavola, tenendo la mano di mia nonna, che aveva posato la forchetta e mi osservava con uno sguardo insolitamente intenso.

“Allora Francesca” esordì mio zio “come procedono gli studi?”

“Sono solo al secondo anno e…” cominciai a rispondere.

“Non importa a che punto si è del percorso, l’importante è affrontarlo con decisione” mi interruppe il nonno “Dopo un geometra e un ragioniere” aggiunse indicando i figli “nella nostra famiglia ci sarà presto anche un avvocato, giusto?”

Mi resi conto di avere tutti gli sguardi puntati su di me e mi venne voglia di dire la verità, raccontando quanto mi sentissi fuori posto all’università e di come fosse sempre più forte il desiderio di partire per un’esperienza di volontariato all’estero, per poter staccare la spina e capire cosa volevo fare della mia vita.

Invece cominciai ad annuire, balbettando “Sì, certo, però ci vuole tempo…”

“Il tempo giusto, di certo non vorrai dormire sui libri e fare la bella vita, vero?” mi chiese il nonno inarcando un sopracciglio.

“No, io volevo solo dire che ci sono tanti esami, poi la tesi…” risposi esitante.

“Ecco perché ci vuole determinazione, e tu ce l’hai, giusto?” tornò alla carica lui.

Io mi sentivo mancare l’aria e stavo aprendo la bocca per acchiappare una risposta, quando la nonna disse ad alta voce “Vorrei una tazza di tè”.

Ci voltammo tutti a guardarla, mentre il nonno le rispondeva “Ma Lidia, siamo solo al secondo, per il tè non puoi aspettare la fine del pranzo?” Lei scosse la testa “No, io non ho più fame, quindi preferisco berlo adesso”. “Suvvia, puoi resistere mezz’ora, così lo beviamo insieme” ribadì il nonno.

Ma lei si portò una mano alla pancia, insistendo “Ho mal di stomaco, quindi è meglio se lo bevo subito per evitare di stare male e rovinarvi la festa”.

La prospettiva del suo dettagliato programma mandato in fumo da un imprevisto mise in agitazione il nonno che disse subito “E va bene, se è così necessario vorrà dire che andrò a prepararlo io e lasceremo l’arrosto nel forno un po’ di più” e iniziò a spostare la sedia all’indietro.

La nonna lo fermò stringendogli la mano “Meglio di no, così l’arrosto rischia di bruciarsi. Magari, mentre tu pensi al secondo, al mio tè posso provvedere da sola”.

Ci fu un momento di silenzio imbarazzato: il mese precedente la nonna aveva dimenticato una pentola sul fuoco e solo per poco il nonno era riuscito ad evitare che ci fossero delle spiacevoli conseguenze.

“Non è necessario, se stai poco bene è meglio se resti seduta e al tuo tè…”

“Al mio tè” completò la nonna, guardandomi di nuovo con intensità “magari potrebbe pensare Francesca, sempre che lei sia d’accordo”.

“Certo” dissi alzandomi “te lo preparo volentieri”.

“Trovi la scatola con l’infuso nell’ultimo scaffale della credenza” mi disse lei “è quella rossa con i fiori azzurri”.

“Ma Lidia, non potresti accontentarti di una semplice camomilla?” sbuffò il nonno.      “No, quella non aiuterebbe il mio stomaco” rispose lei in tono gentile ma fermo “ci vuole la tisana digestiva: scatola rossa con i fiori azzurri, hai capito tesoro?” mi chiese ammiccando.

“Sì, certo, tutto chiaro” risposi io, seguendo il nonno in cucina.

Una volta entrati, lui chiuse la porta e alzò gli occhi al cielo “Purtroppo anche questo fa parte della malattia: ogni tanto si impunta su qualche sciocchezza che per lei diventa di fondamentale importanza, senza un vero motivo”.

“Va tutto bene” gli dissi “le faccio volentieri il tè; tu intanto pensa pure all’arrosto”. Lui si diresse borbottando verso il forno, mentre io cominciai a cercare tra i ripiani della credenza: nei miei ricordi d’infanzia c’era l’immagine nitida della scatola descritta dalla nonna, ma non riuscivo a collegarla ad un evento particolare.

Dopo qualche tentativo, spostando una zuccheriera e un vaso di biscotti, vidi comparire i fiori azzurri della decorazione e, sollevandomi sulle punte dei piedi, afferrai saldamente la scatola. La rigirai tra le mani ed il senso di dejà vu aumentò: quando l’avevo già vista?

Aprii il coperchio e rimasi interdetta: all’interno c’erano alcune bustine ingiallite, che però erano disposte in orizzontale, come a formare una sorta di copertura.

Nel momento in cui le sollevai ebbi un’enorme sorpresa: sotto quel sottile strato di the ce n’era un altro molto più spesso, formato da banconote ordinatamente arrotolate.

Furtivamente mi voltai per vedere se il nonno mi stesse guardando, ma lui era totalmente concentrato sul taglio dell’arrosto. Riguardai la scatola e allora mi venne in mente che l’avevo osservata più volte: rividi la nonna che rientrava in casa dopo il consueto giro al mercato e riponeva velocemente nella scatola le monete e le banconote che era riuscita a risparmiare sulla spesa appena fatta. Un’economia paziente, fatta di piccoli risparmi e grande attenzione, per essere certa che in tavola non mancasse mail nulla e che, al tempo stesso, la scatola di latta continuasse a riempirsi. Non potendo lavorare a causa degli impegni famigliari, aveva comunque trovato un modo per riuscire a mettere da parte, giorno dopo giorno, un piccolo gruzzolo per le emergenze. Ed ora aveva affidato a me quel tesoretto così faticosamente risparmiato.

“Allora Francesca, hai trovato quel benedetto tè?” mi chiese il nonno, interrompendo il flusso dei miei ricordi.

“Sì, l’ho appena trovato” gli risposi voltandomi verso di lui per accertarmi che fosse ancora impegnato con la portata principale del pranzo.

“Allora prendi il bollitore” rispose lui “Vuoi che ti mostri dov’è?” mi chiese girandosi nella mia direzione.

“Non è necessario, lo trovo da sola” gli risposi precipitosamente, per evitare che venisse verso di me.

Lui tornò ad occuparsi dell’arrosto e io feci un profondo respiro: se volevo cogliere l’aiuto che la nonna mi aveva offerto dovevo agire subito, senza esitazioni. Feci scivolare la mano all’interno della scatola, fino a sentirne il fondo, e poi la strinsi attorno ai rotoli di banconote contenuti al suo interno. Infilai tutto in una tasca dei miei pantaloni, poi presi una bustina di infuso e richiusi la scatola, rimettendola tra i contenitori e i segreti dell’ultimo ripiano.

Preparai il tè, aiutai il nonno a sistemare la carne sul vassoio e tornai insieme a lui in sala da pranzo.

“Signore e signori, ecco a voi l’arrosto!” annunciò trionfalmente il nonno, accolto dall’applauso di tutti i commensali. Tutti tranne una, la nonna, che aveva lo sguardo rivolto verso la finestra.

Mi avvicinai a lei e posai la tazza accanto alla sua mano, dicendole “Nonna, ecco il tuo tè”.

Lei guardò il liquido scuro con aria perplessa e poi si rivolse a me scuotendo la testa “Ma perché mi hai portato il tè se non abbiamo ancora finito il pranzo?”

Il suo sguardo era tornato acquoso, una sorta di piccolo lago dove galleggiavano i pensieri, in un’apnea intermittente dalla vita quotidiana e dalla sua fredda oggettività.

“Ti ho portato il tè perché…” stavo per dirle che me lo aveva chiesto lei, insistendo e dandomi delle indicazioni molto precise, che rispondevano non tanto ad un suo bisogno quanto a una mia silenziosa richiesta d’aiuto.

Ma poi la guardai nuovamente negli occhi, dove non c’era più la risolutezza di pochi minuti prima ma solo l’espressione confusa di chi teme di essere inciampato nuovamente su un gradino che non riesce nemmeno a vedere.

Così le dissi “Ti ho portato il tè perché so che ti piace molto e volevo farti una sorpresa”. Lei mi sorrise, mi ringraziò e strinse la tazza tra le mani, riprendendo a guardare verso la finestra.

Io tornai a sedermi al mio posto e la stanza si riempì di profumo d’arrosto e chiacchiericcio di sottofondo, come nella migliore tradizione natalizia.

Tra un boccone e l’altro ripresi a conversare con i miei parenti mentre, furtivamente, con la mano accarezzavo la tasca dei pantaloni e il suo tesoro segreto. Sotto il sottile strato di tessuto sentivo risplendere quella parentesi di libertà di cui avevo un disperato bisogno, e per questo mi sembrava di poter già respirare meglio, a pieni polmoni.

Posai uno sguardo pieno di gratitudine sulla nonna, che lo ricambiò con un sorriso spaesato: era evidente che i suoi pensieri erano già altrove, diretti verso il paese parallelo dove stavano lentamente prendendo residenza.

Mi resi conto però che questa sua condizione non cambiava la vera essenza del nostro rapporto: anche se non ero sicura che nonna potesse vedermi o riconoscermi, mi restava però la certezza che sarebbe sempre riuscita a capirmi.   Tutto il resto era solo una lunga serie di scadenze, di nomi e di circostanze più o meno noiose, da mandare giù a sorsate, come una buona tazza di tè.