Racconto di Margit Horsky

(Sesta pubblicazione)

 

Se c’era una cosa di cui era proibito parlare a casa del nonno era la conversione di zia Rosa. Anzi era proibito pronunciare anche solo il suo nome. Per lui era come morta e di una morte infamante, da non nominare.

Se per caso alle riunioni di famiglia o alle feste grandi a qualcuno scappava il suo nome o anche solo un’allusione a monache o conventi, beh era meglio non illudersi di arrivare al dolce o aprire i regali di Natale o le uova di Pasqua. La tovaglia di pizzo afferrata per gli angoli dalle sue mani robuste e rossicce veniva tirata con forza fino a far rovesciare caraffe e calici, mentre il volto diventava livido e gli occhi sembravano pezzi di brace. Solo un minacciato svenimento della nonna impediva che piatti, posate e vassoi finissero sul pavimento.

Io non avevo mai assistito a una scena del genere. Ma mio cugino Lorenzo, che a 12 anni sapeva tutto, assicurava che era successo e poteva accadere di nuovo. Conoscendo le sfuriate del nonno non stentavo a credergli.  Non era cattivo, forse un po’ burbero, però con noi bambini amava scherzare. Spesso ci giocava pure. E aveva sempre una caramella per noi in tasca.

A quel tempo non potevo saperlo, la giovane età mi proteggeva da certi avvenimenti scabrosi. Ora, cresciuta, so che era stato un gran donnaiolo, che in gioventù aveva tradito la nonna in varie occasioni e che ogni volta che tornava da lei le regalava una gravidanza per cementare la riunione. Avevo cinque zii, tra maschi e femmine. E Rosa, la più giovane, era sempre stata la sua preferita, forse perché la nonna quella sesta volta non voleva saperne di una nuova riconciliazione e voleva tornare dai genitori con tutti i figli. Rosa aveva salvato la vita coniugale. E lui l’adorava. Questo fino alla conversione, che lui considerava un vero tradimento.

Il nonno non andava mai in chiesa. Aveva in odio preti, monaci e tutto il clero da quando un vecchio zio senza figli – secondo lui manipolato dal confessore – aveva lasciato in eredità alla chiesa metà del patrimonio e un palazzo storico in centro città che, diceva, gli sarebbe spettato di diritto.

Così quando Rosa, dopo un viaggio in Africa, aveva deciso di dedicarsi ai poveri lasciando la vita secolare per lavorare in una missione, il nonno ebbe un infarto, leggero per fortuna. Una volta ripresosi la cancellò dalla sua vita e da quella della famiglia imponendo a tutti di rompere ogni contatto con lei.

Non so se l’avesse davvero cancellata, perché gli effetti della sua sofferenza erano evidenti, sentivo dire alla mamma: era intristito, invecchiato. Quell’assenza lo tormentava, quindi lei era più presente che mai. Il rapporto tra lui e Rosa era sempre stato movimentato, si amavano e si combattevano. Forse era proprio questo che al nonno mancava, una lotta continua con l’unica persona che sapeva tenergli testa. E ai suoi occhi aveva fatto la peggior cosa possibile abbracciando la chiesa.

Dopo un anno dal “tradimento”, zia Rosa aveva espresso il desiderio di tornare a casa per le vacanze di Natale. Il nonno si era opposto e lei se l’era legata al dito non facendosi più viva. Con lui, perché con gli altri membri della famiglia non aveva mai smesso di parlare, specialmente con la mia mamma a cui era molto legata. Io lo seppi solo in seguito, a noi bambini questi rapporti tra zii erano taciuti per paura che ci scappasse qualcosa col nonno.

Un giorno, avrò avuto sei anni, origliando da dietro la porta del salotto, sentii la mamma dire a papà che zia Rosa aspettava un bambino (una suora???) e aveva il desiderio di tornare dall’Africa per partorire vicina a mamma e sorelle. Lei, la nonna e le zie avevano dato la notizia al nonno, con tutte le cautele possibili, non ultimo allertando il medico di famiglia. Non c’era stato un altro infarto. Il nonno aveva solo detto sprezzante che il bastardo doveva essere figlio del confessore delle monache. Che tornasse pure ma non mettesse piede in casa sua.

Ero molto confusa: una zia suora che abitava in Africa e aspettava un figlio da un prete.  Alla prima occasione chiesi a Lorenzo, che sapeva sempre tutto. Mi spiegò che zia Rosa non era mai stata una vera monaca, era una specie di suora senza tonaca. Forse all’inizio aveva pensato di diventarlo, poi però aveva semplicemente scelto di aiutare i bisognosi. Poi si era innamorata di uno alla missione e ora ci sarebbe arrivato un cuginetto. (Mi chiesi di che colore sarebbe stato, visto che veniva dal continente nero). Disse anche che io, essendo l’ultima della lunga serie di nipoti, avrei perso il mio posto privilegiato con i nonni.  Per quello non mi preoccupavo, non temevo di perdere l’affetto del nonno, lui tanto non voleva vedere né zia Rosa né il bambino. Quanto alla nonna, lei ci adorava tutti.

Quando finalmente incontrai la zia – era partita che ero piccola e non la ricordavo – fui sorpresa da quanto assomigliasse a mamma, di come fosse bella, nonostante un pancione enorme. E non era per niente simile alle suore della scuola materna che avevo frequentato. Mi regalò uno strano pupazzo di paglia e stoffa, mi coccolò, mi fece un sacco di domande e poi mi fece sentire i piedini del bimbo che creavano una protuberanza sul pancione. Non vedevo l’ora che nascesse per vedere se era bianco o nero.

Le chiesi se sarebbe diventato un prete come il suo papà. Lei, interdetta, guardò la mamma che sussurrò “ti spiego dopo”. Ma la zia mi rispose: “Se vorrà fare il lavoro del papà diventerà pediatra”. Fui soddisfatta.

Quando mi mostrarono Matteo, però, fui un po’ delusa. Mi aspettavo un bel bimbetto, un Cicciobello nero come quello che avevo visto al museo dei giocattoli, e invece non era per niente carino: pochi peli biondi in testa, pelle rosea e piena di grinze, niente denti. Per di più strillava come un ossesso se non poppava. Ma quando lo vidi in braccio al nonno – eh sì ci fu una grande riconciliazione – lo invidiai tantissimo. Il nonno era felice e aveva gli occhi che luccicavano. Non gli avevo mai visto quello sguardo.