Racconto di Maria Pia Rosati

(Decima pubblicazione)

 

Scendeva le scale, aveva fretta, il taxi l’aspettava. Stava chiudendo, finalmente, quella porta e stavolta non sarebbe tornata indietro. Si fermò all’improvviso sul marciapiede, il tempo di riflettere ancora per qualche secondo. Poi, dopo avere fatto un cenno all’autista, si avvicinò a un cestino dei rifiuti e vi gettò dentro le chiavi. Salì subito a bordo, prima di avere il tempo di ripensarci e andare a recuperarle. Gocce di sudore gelido cominciarono a scenderle lungo le braccia fino a bagnarle la seta della camicetta. Ma apparteneva a lei quel viso scarno e pallido che vedeva riflesso nello specchietto retrovisore? E come mai le sue labbra erano increspate da sottili rughe? Si può invecchiare di colpo nello spazio di un pomeriggio? Concluse che sì, era possibile. Aveva soltanto venticinque anni e la sua vita era ad un punto di svolta. Lacrime amare e silenziose cominciarono a scenderle lungo le guance. Se ne accorse il tassista che, per uscire dall’imbarazzo, alzò il volume della radio. Ma continuò a guardare la sua immagine riflessa e provò pena per quella ragazza così addolorata. Pensò subito che soltanto una delusione d’amore poteva averla ridotta in quello stato. Chi poteva aver maltrattato una giovane donna così elegante, raffinata e dal viso così dolce? Ci sono proprio uomini che non meritano nulla, questo pensò l’autista, mentre svicolava fra le strade del centro, invase dalla pioggia, in quel freddo venerdì sera di dicembre.

Se l’era voluta. Solo questo riusciva a pensare con il viso poggiato sul vetro del finestrino. Come le era venuto in mente di strappare quell’appuntamento fuori programma? Doveva essere una sorpresa per lui, e invece era stata lei ad averla avuta. La testa era affollata da tante immagini che scorrevano davanti ai suoi occhi, come quando al cinema fin dall’inizio si immagina il finale della storia. Quel film era durato ben tre anni e soltanto in quel momento se ne rese conto. Su quel taxi realizzò di aver fatto quello che avrebbe dovuto fare da tempo. Ma le era sempre mancato il coraggio. Era avvenuto tutto nello spazio di un paio d’ore e senza averlo deciso. Il taxi, Roma 25, segnava l’uscita dalla fase più importante della sua vita.

Quel pomeriggio era uscita presto dall’ufficio; passando davanti ad una vetrina, aveva avuto l’idea di comprare un alberello di Natale, alto pochi centimetri, illuminato da palline di vetro dorato e una ghirlanda decorata con pigne e fiocchi rossi. Non avrebbe trascorso il Natale insieme a S., questo lo sapeva, ma voleva ugualmente portare un’atmosfera di festa in quel monolocale che era stato arredato come una anonima stanza d’albergo. Aveva convinto S. a passare almeno un paio d’ore nel loro rifugio, dato che lui avrebbe trascorso le due settimane di Natale con la sua famiglia nella baita sulle Dolomiti. Ma Anna aveva bisogno di respirare la sua presenza quanto i suoi figli necessitavano di respirare l’aria di montagna. Lo aveva implorato al telefono e lui, alla fine, aveva spostato la partenza al giorno successivo. Era la prima volta che S. rinviava un impegno di famiglia per lei. Non aveva mai osato chiedere niente di più, ma stavolta, complice l’arrivo del Natale, ad Anna era sembrato di aver ottenuto una vittoria. Magari poteva essere l’inizio di un cambiamento, forse di una svolta. Le era diventato necessario annusare la sua pelle, portarsi dietro il suo odore e respirarlo poi, scaldarsi almeno per un po’ nel loro letto, altrimenti come avrebbe fatto a superare il Natale e quelle due settimane di separazione? Mancavano soltanto due giorni alla vigilia e stavolta si era sentita in diritto di richiedere un festeggiamento anticipato. Aveva messo in frigo la bottiglia di champagne e le tartine che aveva acquistato nel bar vicino per un brindisi anticipato. Pregustare il piacere di quel breve incontro le faceva stemperare l’angoscia per la sua assenza, da dover sopportare senza neppure il conforto di una telefonata. Al massimo poteva aspettarsi qualche messaggio di auguri, come una qualsiasi conoscente. Era stato per questo che Anna aveva voluto decorare quel monolocale nell’anonimo residence. Voleva creare l’atmosfera natalizia nel luogo dove, da tre anni, avvenivano i loro incontri furtivi: quell’appartamento le sembrava la tana in cui si rifugiano gli animali selvatici per nascondersi da possibili nemici. Anna aveva cercato di riempire l’attesa del Natale, uguale ai precedenti, con la cena aziendale insieme ai suoi colleghi e il pranzo di famiglia che puntualmente le ricordava di non avere un uomo accanto a sé con cui festeggiare. Ma il disagio che sentiva lo portava dentro tutto l’anno. Ad ogni domenica sera, l’invadeva una profonda malinconia, specie quando le sue amiche rientravano in città dopo aver trascorso il fine settimana con i rispettivi fidanzati in montagna o al mare d’estate o alle terme in autunno. Ma quando sarebbe toccato a lei? Ci sarebbe stato mai un fine settimana insieme a S.?

Mentre aspettava che la chiave girasse nella toppa, Anna si era guardata allo specchio: mancavano solo pochi minuti all’appuntamento e doveva ingannare l’attesa in qualche modo. La piega del parrucchiere teneva ancora, il vestivo che aveva scelto per l’occasione era perfetto. S. non si sarebbe pentito di aver rinviato la partenza per poterla rivedere ancora una volta. E per di più non di lunedì e di mercoledì, come avveniva di solito. Fra questi pensieri i minuti avevano cominciato a scorrere veloci. Si era affacciata alla finestra per gustare il piacere di vederlo arrivare con l’impermeabile beige e la sciarpa scozzese che le aveva regalato per il compleanno, i capelli brizzolati pettinati all’indietro, l’andatura veloce e decisa che aveva notato al primo incontro. Aveva sistemato il pacchetto ricoperto di carta argentata sul letto: una camicia bianca con le sue iniziali era stato il regalo che aveva scelto, l’unico che avrebbe potuto indossare senza destare sospetti. L’aveva comprata nel negozio dove lui era solito fare acquisti. Le strade, già piene per lo shopping natalizio, si stavano affollando per l’abituale traffico del venerdì pomeriggio: chi si recava nei bar del centro per l’aperitivo, chi al cinema, molti si affrettavano a rientrare a casa. Aveva notato con preoccupazione che stava facendo buio e subito aveva avvertito un brivido sulla pelle: lui, sempre puntuale, era decisamente in ritardo. Uno strano presentimento l’aveva spinta a comporre il suo numero. Ed era successo quello che più temeva: il cellulare risultava staccato. Aveva cercato una scusa per giustificarlo: il suo telefono era scarico. Lui non avrebbe mai potuto lasciarla lì, in quell’appartamento senza neanche avvertirla. Aveva aspettato ancora, gli aveva concesso un’altra mezz’ora per eventuali contrattempi. Poi aveva cominciato a richiamare il suo numero in modo compulsivo, almeno venti chiamate senza risposta in pochi minuti. Con lo sguardo sempre fisso sul marciapiede, aveva dovuto arrendersi all’evidenza: lui era partito con la sua famiglia e le aveva negato il piacere di un augurio, perfino il diritto di ricevere una telefonata di scuse. Ma quali diritti aveva mai potuto pretendere? In quel momento, Anna si era resa conto di come lui negli ultimi tempi fosse cambiato. Ripensò agli ultimi loro incontri meno coinvolgenti di un tempo, alle evasive risposte di lui alle sue tante domande, al sollievo che notava sul suo viso quando sul portone si salutavano per tornare ognuno alla propria vita. D’improvviso, con la bottiglia di champagne sul tavolo e l’alberello di Natale sul comodino, si sentì una sciocca. Si trovò ridicola, patetica e cominciò a ridere di sé con le lacrime agli occhi. È finita, pensò, ora è veramente finita.

Erano ormai le otto di sera: era rimasta per un paio d’ore, quasi stordita, buttata sul letto, il tempo necessario per ripassare gli ultimi tre anni della sua vita insieme a lui: non vide altro che domeniche solitarie, fine settimana davanti al televisore in attesa di un messaggio, estati calde trascorse in città in attesa di un suo ritorno dalle vacanze. E così, all’improvviso, si era alzata, aveva chiamato un taxi e, afferrata la borsa e il cappotto, si era sbattuta la porta dietro le spalle. Aveva sceso di corsa i sei piani di scale con il fiato in gola. L’aria gelida, carica di pioggia che, varcato il portone, l’aveva investita, era stata un ritorno alla realtà, quella che esisteva oltre i muri di quell’appartamento.

Mentre il taxi filava veloce, Anna pensò all’epilogo che da tre anni aveva immaginato: lui che un giorno avrebbe scelto di vivere con lei. Cosa l’aveva spinta ad innamorarsi di un uomo tanto più grande di lei e per di più con moglie e figli? Ad un tratto rivide sé bambina mentre allestiva l’albero di Natale e impacchettava i doni. Dalla cucina suo padre e sua madre stavano litigando, poi le grida erano diventate sempre più forti. Anna si era otturate le orecchie con le mani e aveva deciso di rimanere ad addobbare l’albero finché fosse tutto finito. Poi, all’improvviso, aveva sentito il tonfo della porta d’ingresso. Suo padre se n’era andato e sua madre era rimasta in cucina a piangere: suo marito aveva deciso di passare il Natale con la sua amante. Anna, da quella sera non l’aveva più rivisto e non l’aveva nemmeno più cercato. Pensava di aver cacciato questa ferita della sua infanzia nell’angolo più remoto dei suoi ricordi, di averla perfino dimenticata. Ma ora, su quel taxi, Anna capì che da allora, senza rendersene conto, aveva atteso il suo riscatto che aveva il sapore di una vendetta: un altro uomo, per causa sua, avrebbe lasciato la moglie e i suoi figli, come suo padre aveva fatto con lei. Ma questo non era accaduto: non le restava altro che subire l’ennesimo abbandono. Eppure, se era sopravvissuta alla perdita di suo padre, poteva trovare il coraggio necessario per continuare la sua vita anche senza S.

C’era un altro Natale che stava per arrivare e finalmente provò il sollievo di essere finalmente soddisfatta di sé: quelle chiavi giacevano dentro il cassonetto dei rifiuti e lei non sarebbe tornata indietro a riprenderle. Doveva resistere fino al giorno successivo quando sarebbe stato svuotato.

Scese dal taxi abbozzando un sorriso all’autista che le aveva aperto lo sportello: “Abbi cura di te” pensò lui, mentre lei, coperta dall’ombrello, stava per attraversare la strada. “Felice Natale”, gridò l’autista del taxi Roma 25, prima di ripartire. “Ce la farò!”, gli rispose lei, voltandosi per un attimo, prima di varcare il portone di casa.