Racconto di Lucia De Bortoli

(Tredicesima pubblicazione)

 

È l’alba, Pietro Daddio è appena uscito dal rifugio e l’aria fredda gli punge le guance. Si alza il bavero del giubbotto e, con una leggera scrollata si posiziona bene lo zaino sulle spalle.

Dopo il Vaia, il suo lavoro è aumentato e non ha tregua. Un dito indice invisibile che, con un colpo solo, ha abbattuto un domino gigantesco di vecchi pini e larici sottili, azzerando secoli di storia, ha lasciato distese di stuzzicadenti che lui deve tagliare a pezzi e portare via. Non ci sono molte persone che lo fanno, d’altronde neanche lui lo voleva.

Nato in un paesino appena segnato nelle mappe locali, era fuggito dopo le scuole superiori, iscritto a psicologia, per mantenersi gli studi faceva qualche lavoro in città. Si era specializzato in ipnosi regressiva, lavorava in un piccolo studio e aiutava i suoi pazienti a rievocare ricordi passati per ritrovare se stessi e dare forma alla loro vita. Ma aveva perso la sua, di vita. Era stato risucchiato dalle memorie di sconosciuti dimenticando la propria e aveva deciso di ritornare al suo paesino e riprendere il lavoro di boscaiolo ereditato dal padre. Gli alberi avevano altre storie da raccontare e la montagna lo proteggeva dalla realtà.

La penombra del mattino non ancora nato accarezza i lineamenti delle montagne e crea nuove ombre durante il cammino. I circhi glaciali accolgono nuvole sparse, bianche e dense come anime che vagano tra doline e ghiaioni, libri di calcare grigio rosso ammonitico aspettano da secoli che qualcuno legga e comprenda la loro storia, solo il vento sfoglia le pagine e un giorno alla volta ne consuma il bordo come topi affamati in una biblioteca negletta. Frane di rocce nascondono zaini, armi e corpi mai raccolti, impressi nella memoria come colonie di licheni crostosi sulla roccia interrotte da ciuffi d’erba. Fiori su una tomba.

Con gli scarponi dalla suola dura Pietro Daddio affronta il sentiero che aveva calpestato da piccolo. Ricorda le lunghe passeggiate con suo nonno che a passi lenti e soppesati lo accompagnava tra i sentieri della storia. Nascoste tra rami e tronchi vedeva le gallerie dove giovani combattenti aspettavano rinforzi e comandi da seguire, con la piccola mano aggrappata a quella ruvida del nonno entrava nelle casere senza soffitto, crollato dal peso della neve e con le travi marce, dove uomini e donne avevano trovato rifugio nella notte fuggendo dai tedeschi, dove giovani staffette bussavano in codice per entrare e consegnare messaggi, dove il coraggio vinceva sulla paura.

Un piccolo sasso nel piede gli infastidisce l’andatura e Pietro Daddio si ferma al tornante della mulattiera per sedersi sul muretto. Nella penombra delle rocce, sente qualcosa muoversi. Seduta e rannicchiata a terra gli sembra di vedere una ragazza. Gli occhi sono presenti a ogni minimo scricchiolio delle rocce, guardano tesi e paurosi gli angoli bui dei cespugli cercando un segno che la possa rassicurare. Allontana i capelli dal viso e li porta dietro le orecchie, si asciuga la fronte e allunga la mano lungo la guancia fino a sotto il mento, inspira profondamente trattenendo l’aria dentro di sé per un attimo, poi butta fuori la tensione dal naso senza rumore. È giovane, troppo giovane per trovarsi lassù con uno zaino più grande di lei, un logoro giaccone marrone legato in vita da uno spago e una gonna di lana per fingere di essere in passeggiata. Le mani sono sporche di terra e graffiate dalle rocce su cui si è arrampicata per non rischiare di essere vista, le unghie spezzate e consumate dal lavoro. Dal petto non ancora cresciuto prende una busta, la apre, controlla, sfoglia le carte, le osserva, legge, controlla che tutto sia in ordine, non deve perdere nulla, i suoi compagni la stanno aspettando e contano su di lei.

Pietro Daddio è invisibile vicino a lei, imbambolato come un bambino di fronte a uno spettacolo di magia, osserva la ragazza. Chissà com’è alle feste paesane, se ha mai potuto indossare un vestito a fiori, se ha ballato con un ragazzo, se ha dato il suo primo dolce bacio furtivo, se invece la guerra ha sorpreso la sua giovinezza facendola diventare vecchia in un corpo di bambina.

Dopo qualche minuto, la ragazza si alza in piedi rassicurata dal silenzio, si siede sul muretto vicino a lui e appoggia lo zaino, lo apre e prende un pezzo di pane. È colmo di farina, formaggio e qualche pezzo di carne secca.

Pietro Daddio tra le lacrime la vede vibrare, invidia la sua tenacia. Alla sua stessa età lui era seduto a una innocua scrivania a studiare e beveva aperitivi nei locali mentre lei rischiava la vita alle prime luci dell’alba.

Si alza, lega stretto lo spago del giubbotto, si carica lo zaino sulle spalle e, con passo riposato e rapido, riprende il cammino.

Asciugandosi gli occhi, Pietro Daddio la guarda allontanarsi e svanire tra le rocce.

Il sole sta sorgendo, si allontana da quel muretto che per pochi attimi lo ha riportato nel passato e riprende il cammino.

Al bivio della teleferica, dove è rimasta solo la piastra di cemento, svolta a destra per entrare nel bosco dove la strada è più ripida, il sentiero è ricoperto di aghi di pino e foglie e in alcuni punti diventa una gradinata di rocce. Pietro Daddio è prudente, appoggia deciso e cauto il piede nei punti più sicuri attento a non scivolare. Conosce bene quel sentiero, ma ogni volta nota un nuovo masso, una radice più esposta, un albero più inclinato. L’ultima discesa prima del paese è la più ripida. Il bosco è finito, il sole è alto e la fronte madida di sudore riluccica ai raggi che riscaldano, ora si apre un enorme onda verde delimitata da un filo leggero che può fermare solo gli animali e con cautela lo sposta e attraversa il prato quasi saltellando per scendere fino alle prime case.

Pietro Daddio non ha fretta di arrivare perché in montagna ogni cosa ha il suo tempo, non deve lavorare con smania, ci vuole prudenza nel tagliare un albero, non c’è fretta nel farlo cadere perché deve solo guardarlo e aspettarne il tonfo.

Attraversa il ponte, supera la chiesetta e, alla prima salita, da lontano vede casa sua come fosse la prima volta.

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