Racconto di Angelo Reccagni

(Terza pubblicazione)

 

Elia non mangiava per vivere, ma viveva per mangiare. Il suo rapporto con il cibo, sin da quando era piccolo, rasentava la paranoia. Suo padre ricordava sempre un episodio che era accaduto durante una gita di famiglia, quando si erano fermati in una trattoria.

La cameriera, nel raccogliere le ordinazioni, rivolgendosi ai genitori osò domandare “e per il bambino mezza razione …? “.

Elia, nell’udire quelle parole sentì il proprio cuore accelerare i battiti, avvertì un aumento della pressione arteriosa e della relativa irrorazione dei vasi periferici; il suo feroce dissenso alla richiesta della cameriera fu così ben espresso dal suo sguardo che la poveretta, balbettando e mostrando un leggero pallore, si affretto a dire “passo subito in cucina per consegnare l’ordine di tre pasti completi” e corse via.

Ad esasperare ulteriormente questo suo peculiare rapporto con il cibo ci si mise anche la Seconda Guerra Mondiale. Quando sopraggiunse il giorno dell’Armistizio dell’8 Settembre del 1943, Elia era un ragazzone di vent’anni militare di istanza a Lodi, alla Caserma Felice Chiarle. Con la resa alle truppe tedesche, fu obbligato a dover decidere se aderire alla Repubblica Sociale di Salò o farsi deportare in un lager tedesco ed Elia optò per la seconda soluzione. Venne deportato in una località della Bassa Sassonia, in un campo per internati militari italiani. Le condizioni di vita erano al limite della sopravvivenza: freddo, duro lavoro, violenze, soprusi continui e soprattutto la fame. Si ritrovò a rovistare fra i rifiuti delle guardie per mangiare bucce di patate ed a dover svolgere il difficile compito di dividere il pane quotidiano con i suoi compagni di baracca. Si trattava di tagliare una grossa pagnotta in parti uguali fra tutti i componenti del suo gruppo e questa responsabilità l’affidarono a lui.

Elia nella vita era un valente muratore, uno che sapeva leggere i disegni, fare di calcolo e che possedeva una mano ferma e precisa. Quando affondava nel pane la lama del coltello si sentiva schiacciare da tutti quegli occhi affamati che lo circondavano e controllavano. Elia sudava freddo e tagliava lentamente cercando di essere il più preciso possibile e quasi sempre, per non fare differenze, finiva che la porzione finale cioè la sua, fosse sempre la più piccola. Con l’arrivo del’esercito russo e della liberazione ritornò a casa, tanto era smunto e dimagrito che sua madre alla stazione non lo riconobbe. Nonostante lo scorrere della vita, cioè il lavoro, il matrimonio, i figli, il suo tempo continuava ad essere costantemente scandito dal pensiero per il cibo. Un pensiero, quello per il cibo, che dopo la tragica esperienza della prigionia era diventato una vera e propria ossessione. Tornato al suo mestiere di muratore, in cantiere, al momento della pausa pranzo, era sua abitudine andare a sedersi insieme ai colleghi su delle assi sistemate a mo’ di panchine attorno ad un fuocherello, dove ognuno apriva i contenitori del proprio cibo portato da casa. A differenza degli altri muratori, molto più frugali, Elia era sempre fornito di “schiscette”, “schiscette” molto speciali le sue e cioè la ”schiscetta” con il primo, la “schiscetta” con il secondo e contorno, la frutta, il vino, il pane e anche il termos con il caffè ancora caldo. Con il fluire della vita, si avvicinò il Natale del 1961; i Natali” per Elia erano: la messa della vigilia in giacca e cravatta e principalmente la tavola imbandita della “saletta” cioè del salotto- tinello, la stanza bella della casa, quella che praticamente non usavano mai essendo la cucina il posto eletto per tutte le circostanze quotidiane.

Sia lui che la famiglia erano persone semplici, lavoratori figli di lavoratori, ma il loro

menù natalizio era un tripudio di piatti appetitosi e genuini piatti tradizionali,

piatti tramandati da generazione in generazione, da “Natali” dopo “Natali”.

Elia, come ogni anno, già dal mese di novembre iniziava a pianificare il menù, che poi era sempre lo stesso, per la prossima tavolata di Natale. Una tavolata che vedeva presenti: la moglie, il figlio, i cognati con le due bambine, l’anziana madre vedova e il fratello scapolo del suo povero padre. Mentalmente scorreva tutte le sequenze dei piatti di portata, iniziava dagli antipasti, antipasti come sempre di salumi misti accompagnati dai peperoni verdi lombardi, dai cipollotti in agrodolce e dai funghi chiodini (da lui raccolti in campagna nel tempo libero) conditi con l’olio.  A seguire i favolosi tortelloni, tortelloni a forma di caramella con un fantastico ripieno di amaretti, mostaccino, uva passa, il tutto rigorosamente affogato in un laghetto di burro, salvia e grana grattugiato. Proseguiva poi con il pensiero ai secondi piatti, in primis la classica gallina ripiena a cui aggiungere il biancostato e il cotechino lessati con al seguito contorni di insalate: insalate di patate e cipolle, insalate con peperoni, pomodori e cetrioli e soprattutto il “Pipetto.  Il Pipetto, quello sformato a base di verze, formaggio, pangrattato e noce moscata che lo faceva letteralmente impazzire. Giungeva poi verso la conclusione del progetto “pranzo di natale” aggiungendo formaggi misti, mostarda, panettone, pandoro, panna, mascarpone, torroni, cioccolatini, castagne gassate, datteri, fichi secchi, frutta secca e via dicendo.  Infine chiudeva la performance con frutta di ogni tipo, uva compresa e bar della casa a disposizione: dai caffè agli amari, dalla grappa e al brandy.

Senza dimenticare poi su il tutto, una pioggia di vini, vini rossi e forti quali i barbera, i bonarda, il sangue di giuda, il moscato passito, tutti vini rigorosamente dell’oltre Po Pavese.

Accadde proprio qualche giorno prima del natale del 1961, stava tornando a casa in bicicletta dopo aver fatto gli acquisti dal suo macellaio quando un’auto di grossa cilindrata, senza rispettare il semaforo rosso, lo investi in pieno.

Mentre l’investitore, senza frenare e senza fermarsi, scompariva velocemente   dall’orizzonte, i suoi compaesani lo soccorsero e constatarono che era ridotto in cattive condizioni, dal vicino bar telefonarono al pronto soccorso ed attesero l’arrivo dell’autolettiga. Il referto per Elia fu subito molto severo: politrauma toracico addominale con parziali lesioni allo scheletro, alle gambe e alle clavicole. Fu subito sottoposto ad un primo intervento per evitare che alcune lesioni dello scheletro compromettessero l’aorta e i polmoni, decidendo di provvedere in seguito ai danni alle gambe ed alle clavicole. Data la complessità dei traumi subiti, Elia dovette sottoporsi a diverse operazioni che si protrassero nel tempo. Intanto, la “saletta” di casa, era rimasta come il giorno dell’incidente con tanto di albero e presepe già allestiti. Elia all’ospedale, fra un intervento e l’altro passo tutto il mese di gennaio e verso la metà del Febbraio del 1962 venne trasferito in un centro per la riabilitazione motoria. Durante la degenza al centro di riabilitazione incominciò a riprendere le forze, a sentirsi meglio e da quel momento, il suo pensiero tornò al pranzo per il Natale del 1961. Quel pranzo agognato tutto l’anno e che la tragedia dell’incidente

ave va troncato. Tanto era il dispiacere per la privazione di quella ricorrenza, tanto ci rimuginò sopra che alla fine prese una decisione, decisione che solennemente annunciò alla prima visita dei parenti. Erano tutti attorno a lui, chi in piedi, chi seduto sul margine del suo letto, quando Elia annunciò: << Il pranzo del Natale 1961 si farà…!!!  >> . Verso la fine del mese di febbraio i medici constatarono un buon recupero delle sue condizioni clinico- motorie e finalmente venne dimesso. Rientrato a casa, dopo oltre due mesi di degenza ospedaliera, poté far partire il progetto “pranzo del Natale 1961”.

” Gemmea l’aria”, il clima si era fatto più tiepido, erano i primi giorni di un mese di marzo, giorni soleggiati che annunciavano una bella primavera ma in casa di Elia era il 25 dicembre 1961. Vicino alla finestra della “saletta”, quella che si affacciava sulla via del paese, si ergeva un bellissimo albero di natale, decorato con luci, palline d’oro e rosse e una grossa stella sulla sua punta (a ricordare la stella di Betlemme).

Ai piedi dell’albero una distesa di “erba teppa” su cui erano disposte le statuine dei pastori, le pecorelle, le donne con i cesti del pane, le lavandaie e con al centro la capanna con la Natività, unica eccezione, i tre Re Magi che nonostante fosse Natale e non l’Epifania erano stati anche loro ammessi.

Il disco sul piatto aveva iniziato a girare, e dopo che la nipote aveva posizionato con molta attenzione la puntina sul suo solco, nell’aria si espansero le voci del Quartetto Cetra, e sulle odi della canzone “Buon Natale in allegria “, iniziò il pranzo del Natale 1961 di Elia e famiglia.

Scambio di auguri di rito e partenza, un turbinio di scambi di vassoi, di riempimenti di piatti, di mescita di vini e un crescendo di voci, risa, commenti.

Poi fu la volta dei tortelli, tortelli fumanti, tortelli con il loro inconfondibile profumo, i rebbi si erano appena affondati nella pasta e nel ripieno quando si udì un tonfo, un rumore cupo e sordo come di un qualcosa che si abbatteva pesantemente.

Lo sguardo di tutti si rivolse verso il posto a tavola occupato da Elia e compresero la ragione di quel tonfo cupo e sordo. Elia stava fermo, zitto, immobile, con la testa sprofondata nel piatto fumante dei tortelli, la sua ossessione per il cibo era terminata.

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