Racconto di Alessandro Chiozza

(Prima pubblicazione)

 

Qui non hai la scusa

Che ti può tenere su

Qui la notte è buia

E ci sei soltanto tu

Vasco Rossi, Gli angeli, Nessun pericolo… per te, EMI, 1996

 

È freddo questo posto.

Di un freddo che ti entra dentro e morde le ossa. E le avvolge, prima.

Le avvolge e poi le morde, lasciandoti il senso di un dolore acuto. E il tocco insopportabile di qualcosa a cui non puoi opporti.

Fa freddo in questo posto. Ancora più che fuori, dove le persone si muovono ignare di ciò che qui sta per avvenire.

È da lì che vengo. Da fuori. Da dove la pioggia fina e fredda non è stata comunque capace di andare oltre il suo mandato. Quello di darmi fastidio. Né del resto avrebbe potuto fare di più, trasformandosi in un orribile incomodo capace di fermarmi. In altri giorni, forse. In altre occasioni, magari.

Non oggi.

Forse altre ragioni avrebbero potuto. Opportunità, direbbe qualcuno. Forse altre ragioni avrebbero dovuto lasciarmi fuori, lontano da questo posto dove immobile fisso la croce davanti. Nel freddo.

È da fuori che vengo. Dove sono uno dei tanti e come tale sono ignorato nel modo che si riserva a un perfetto sconosciuto. Che non ha insegne o colori o stravaganze.

Mai avute, del resto. O forse io per primo le ho negate, disconosciute, nascoste.

Chissà se tu, al contrario, hai invece pensato che ne avessi. Poche. Molte. Abbastanza.

Non so. Non me lo hai mai detto. O io non l’ho capito. Ma il tempo è sempre stato poco. E le cose da vivere, invece, un’infinità. Chissà. Forse è per questo che non ne ho avuto coscienza.

Fa freddo qui dentro. E come là fuori sono un perfetto sconosciuto.

Ma qui è diverso. Lo sento.

Degli occhi mi sono addosso. Pochi. Tanti. Non so dirlo.

Alcuni li vedo anche io. Altri li percepisco. Forse di qualcuno è una fantasia.

Non mi conoscete. Forse vi turbo? O magari siete semplicemente curiosi. Vi sembra impossibile. È come se rovinassi quel senso di proprietà del dolore che invece vorreste mantenere. Come se spezzassi un’intimità che non siete disposti a condividere.

Non mi sapete catalogare. Darmi una posizione, un tempo, un perché.

Io conosco solo pochi di voi. I più importanti.

Altri provo a immaginarli, anche se in fondo non sono davvero interessato a voi.

Mi sforzo di non avere sentimenti, che pure, in fondo, meritereste. E forse è per questo che si fa spazio in me, improvvisa, una tentazione. Ecco. Ho la tentazione di sfidarvi. Di alzare lo sguardo. Fissarvi negli occhi. E dirvi che posso stare qui molto più di voi. Ne ho più ragione. Ne ho più diritto.

E so che tu vorresti. Sono certo che tu ne ricaveresti piacere.

E quindi vi scruto. E cerco di conoscervi. Cerco di scoprirvi. E di capire chi siete. Che parte avete avuto.

E perché siete qui. Oltre la forma, perché siete qui? Avete forse una ragione vera?

Vi vedo parlare. Sorridere. Sussurrarvi parole. Vi stringete le mani. Richiamate i bambini con la stessa distrazione con cui sistemate il nodo della cravatta o stirate con le mani i vostri cappotti. Ma chi siete? E perché siete qui?

Non vi conosco. Non ho avuto modo. Non ho avuto tempo.

Guardo in alto. Punto lo sguardo su ciò che mi fa apparire ogni cosa lontana. Lo punto in alto verso pareti gelide di un materiale che non so riconoscere. Osservo il grigio che forse dovrebbe dare un senso di nuovo. Di attuale. Di presenza. Di essenziale. E invece trasmette mancanza, distacco, freddezza.

Percorro la parete, inseguendo la poca luce che filtra dagli stretti nastri in alto. Arrivo alla croce. Grande e chiara. Il centro di tutto, in fondo, che però non mi spiega né consola del mio essere qui.

Silenzio, ora. Tutti in piedi. Si comincia. È il momento dei gesti rituali. E delle parole tramandate. È il momento di dare forma a una comunità alla quale non appartengo e nella quale non voglio stare.

  • La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi.
  • E con il tuo spirito.

Non sono qui per partecipare a un rito che non era il nostro.

Le mie mani dietro la schiena. Le mie labbra serrate. La mia mente a quella vista che non posso togliere dagli occhi. A quel mare sotto di noi, a quello stringerci, a quell’essere uniti come oltre non è possibile.

Sei lì, davanti ai miei occhi senza che io possa vederti. Sei lì dove il mio sguardo è diretto ma posso solo immaginarti. Ti ho in mente. In ogni dettaglio. In ogni atteggiamento. In ogni capello fuori posto, preda del vento e di un ostentato disordine.

  • Dio, Padre misericordioso, tu ci doni la certezza che nei fedeli defunti si compie il mistero del tuo Figlio morto e risorto: per questa fede che noi professiamo concedi a nostra sorella Elisabetta, che si è addormentata in Cristo, di risvegliarsi con lui nella gioia della risurrezione. Per Cristo nostro Signore.

È freddo questo posto. E non bastano le parole a scaldarlo. Non mi bastano le lacrime, né la solitudine da cui ora mi sento stritolare, a spazzare il gelo che mi attraversa il corpo. Non mi basta la rabbia con la quale vorrei sconfiggere queste maschere di angoscia sui vostri volti e con la quale vorrei gridare la verità che non sapete e che invece dovreste conoscere.

Fatico. E mi sforzo di seguire riti e ritmi che non erano i nostri e non abbiamo condiviso. Faccio fatica a stare fermo e mi è impossibile immobilizzare le immagini che mi scorrono dentro.

Tu non dovresti essere qua. Io non dovrei essere qua. Mi chiedo se tu non capisca che qui siamo fuori luogo, fuori posto, fuori da tutto ciò che ci siamo detti e promessi, costruendo sogni impossibili. Impossibili da vivere, certo. Impossibili da non sentire sulla pelle. Anche nei nostri rientri a casa.

  • In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.

No, amore mio. Io non voglio quei frutti. Né pochi, né molti. Non era per questo che ci siamo incontrati. E se ho accettato di vivere nel silenzio era perché sapevo che un giorno avremmo avuto memoria. E storie da raccontare. E posti in cui tornare di nuovo.

Non voglio risorgere. Non dobbiamo tornare migliori. Eravamo ciò che dovevamo essere. Non ascoltare. Non farti attrarre da questi volti tristi e forse contriti per colpe che non hanno voluto evitare.

  • Scambiatevi un segno di pace.

Improvvisamente è come se esistessi. Si gira verso di me una coppia di volti che ora mi sembrano meritare rispetto. Mi sussurrano –Pace, e io sento di voler fare lo stesso. Stringo le loro mani, mentre non riesco a frenare il dolore.

Vorrei parlarti ancora, ma non voglio vederti passare. Se ti fossi accanto dovrei toccarti e non posso farlo. E dovrei chiederti scusa per i miei momenti sbagliati. Dovrei sorriderti per la gioia di averti incontrata.

Non ascolterò le parole finali.

Mi metterò lontano a guardarti. Come nei giorni più duri. In tutti quei giorni che non siamo stati capaci di strappare alle nostre vite ordinarie.

Mi metterò lontano pensando al coraggio che ci è mancato. Agli errori. Alle parole non dette. Alle carezze rimaste sulle nostre mani.

Mi metterò lontano mascherandomi ancora. Questa volta usando la pioggia.

Mi metterò lontano a sognare.

Pensando che invece, non doveva andare così.

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https://www.libraccio.it/libro/9788867703241/alessandro-chiozza/di-corsa-e-altre-storie.html