Racconto di Angela Potente

(Terza pubblicazione)

 

La musica si diffondeva nell’aria senza poter distinguere da dove provenisse precisamente il suono. Camminavo sotto una pioggia fine e inclemente. A ogni passo sollevavo gli occhi nel chiarore che proveniva dalle finestre che superavo. Non so cosa cercassi, né avevo una meta precisa. Avevo lasciato il mio amore a Parigi, nelle sue luci e nei suoi colori, e il ricordo di quell’addio muto e della sua espressione mentre continuava a chiedermi “perché”, mi pungeva l’anima come spine di rose mai date in dono. Vagavo in una città sconosciuta e l’unica cosa che adesso mi legava alla realtà era quella musica che cresceva fuori e dentro di me. A ogni porta poggiavo l’orecchio ma mi ritrovavo solo ad ascoltare i suoni e i rumori di altre vite che probabilmente mai si sarebbero intersecate alla mia. Ma senza saperlo mi offrivano conforto in quella notte umida di pioggia e lacrime. Avrei voluto ringraziarli uno per uno, quegli uomini e quelle donne, che senza saperlo mi stavano regalando la loro normalità. Un tempo, non so più quante vite fa, anche io avevo provato quel calore, quel sentirsi parte di qualcosa, di un’unità. Avevo compiuto le mie scelte. E nei giorni di sole non avevo rimpianti. Ma quella notte era diversa. Era quella musica che mi chiamava, ogni nota d’arco vibrava nella mia anima e mi raccontava un’altra storia di me. Una storia in cui ogni passo, ogni scelta, ogni sì pronunciato possedeva un diverso significato rispetto a quello che gli avevo attribuito. Continuavo a camminare, girando su me stesso per sentire, sentire fin dove vibrasse quel suono. Cominciai a correre, incurante della pioggia che continuava a martellarmi sugli occhi confondendomi. Ogni vicolo una possibilità. Ogni angolo poteva portarmi lì alla radice di quella melodia che, incessante, modulava i miei passi e le mie svolte. Non so per quanto tempo camminai. E ora non saprei dire nemmeno come, ma giunsi finalmente di fronte a una porticina. Non l’avrei vista se non fosse stato per il fioco bagliore proveniente da una finestrella piccolissima posta sopra il battente. Un baluginio di luce dorata che la pioggia mi mostrò in un attimo di tregua. Non bussai nemmeno. Spinsi soltanto. Con il cuore trepidante e felice, per la prima volta dopo anni, varcai la soglia e mi ritrovai sommerso da quella musica come da un’onda impetuosa e dolce. Note che salivano e scendevano, archi pizzicati che mi trasportavano in una nuova dimensione. Immerso in quel mare che mi cullava, chiusi gli occhi spalancai le braccia e mi abbandonai a quella corrente di suoni che mi innalzavano su montagne mai scalate, e poi giù dentro mari mai solcati, planando su acque di laghi neanche mai immaginati. Ogni nota mi mostrava una vita diversa dalla mia, ogni tono mi trasportava in dimensioni sconosciute. Fui guerriero in battaglie dimenticate; un innamorato in attesa sulla banchina di una stazione; una madre dallo sguardo tenero china sulla culla del suo neonato; un padre sveglio all’alba intento a non fare rumore uscendo di casa andando al lavoro; un figlio che riabbraccia l’anziana madre tornando dopo anni di lontananza. Fui un amante abbandonato, un prete in cerca di Dio, un bambino che rincorre un aquilone nel sole. Fui questo e altro ancora quella notte. Ogni crescendo di quella melodia mi richiamava a esperienze diverse e memorie di altri tempi.

Fui uccello migratore, delfino in volo sulla sua onda, ape in cerca di nettare, fiore in bocciolo, albero accarezzato dal vento, cascata fragorosa nel tuffarsi nel fiume, stella splendente e immota nello spazio senza fine.

Quando la musica calò fu sostituita da una voce che proveniva da un angolo nella stanza: «Sei arrivato alla fine» mi disse. Riaprii gli occhi e vidi un uomo. Con la testa canuta sembrava vecchio di mille anni. Aveva gli occhi in ombra e quel poco del suo viso che riuscivo a intravedere raccontava mille storie diverse. Intorno alle labbra aveva quelle piccole rughe di chi aveva sorriso molto, di chi aveva sorriso alla vita perché ne aveva scoperto il segreto. Per quanto mi sforzassi però non riuscivo a scorgerne lo sguardo. Avevo sempre guardato negli occhi il mondo e i suoi abitanti. Amici o nemici che fossero. Ma con lui mi resi conto di quanto fosse difficile. «Sì» gli risposi avvicinandomi. «Ho percorso strade tortuose che non mi hanno condotto da nessuna parte, ho deluso persone che amavo, e sono stato a mia volta ferito da gente di cui non mi importava, ho preso bivi che mi hanno condotto lontano, mi sono perso. Ho sbagliato tante volte, non sono stato capace di perdonare e di perdonarmi. Ho cercato il senso della vita in fondo a un bicchiere quando non riuscivo a trovarlo da nessun’altra parte. Ho dato amore senza essere riamato, e sono stato amato troppo quando non avrei potuto restituire nulla se non la mia rabbia. Ora so che ogni passo, ogni errore, serviva solo per questo momento. Per arrivare qui. Da te».

Il vecchio sorrise. «Gli uomini» disse. «Siamo esseri imperfetti. Caduchi. Fragili. Come cristalli di Boemia basta un suono e ci spezziamo. Siamo scintille di luce ma ne abbiamo paura e ci rifugiamo nell’ombra nascondendoci a noi stessi. Ma passiamo la vita a cercarla quella luce dentro di noi. Tu ora sai che non è mai finito il tempo per trovarla».

Uscì dal cono d’ombra e potei vedere così i suoi occhi. E con quei suoi occhi neri, profondi e dalla forma a mandorla, mi fissò. Erano come uno specchio. Uno specchio che rimandava la mia immagine.

Quei suoi occhi. Erano i miei.