Racconto di Serena Penni

(Prima pubblicazione)

 

Questo ospedale ha qualcosa di stonato. I medici e gli infermieri hanno modi bruschi, i pazienti hanno facce stravolte, sono silenziosi oppure dicono cose che io non capisco. La luce è artificiale, bianca e tetra. Non vedo finestre. Non so da quanto tempo sono qui. Mi mancano i miei bambini.

Ogni volta che mi assopisco, sogno la festa della mia ultima sera tra i vivi. I calici si sfiorano e tintinnano. I vasi sono stracolmi di fiori, il loro profumo si diffonde nell’ambiente e si mescola a quello delle signore. L’aria è densa: di odori, di parole, di risate. C’è un grande lampadario di cristallo che illumina a giorno la stanza. Non può esserci nulla di nascosto.

– Signora, vuole ancora dello spumante? – mi chiede con garbo un cameriere. Io faccio cenno di sì. Lui è ovunque. Tutti sorridono, ma lui più degli altri. È felice, si vede dagli occhi. La sua felicità sono io, ne sono certa. Sua moglie ha i capelli rossi raccolti in una treccia e un vestito blu elettrico, sembra un po’ malinconica ma forse è solo annoiata. È seduta sul divano, parla con un’altra donna, ogni tanto distoglie lo sguardo per fissarlo su un soprammobile o per seguire il volo di una zanzara. All’improvviso sento provenire da una finestra una musica dolce. Mi ricordo che qualcuno fuori mi sta aspettando, allora scappo via.

Sono le undici e mezzo, tra poco dovrebbero passare a distribuire il pranzo. Non che io abbia fame, ma ogni giorno insistono sul fatto che devo mangiare. E allora qualche volta li accontento, e butto giù il loro cibo che ha sempre lo stesso sapore. I medici non vogliono parlarmi dell’incidente che mi ha portato qui. Devono avermi investita mentre tornavo a casa dopo la festa. Investita o aggredita? Ho la testa fasciata e un braccio rotto. Il ginocchio sinistro è gonfio; un livido viola mi copre quasi tutta la coscia. Vorrei parlare con i miei figli; che fine ha fatto il mio cellulare? Mi chiedo chi si stia prendendo cura dei bambini, in questo momento. Saranno col padre, già, immagino abbiano rintracciato Stefano. Oppure sono con la nonna. Mi fa male la testa. Mi danno un sacco di medicine, ma non servono a nulla. Ieri è venuta la polizia, speravo che mi spiegassero cos’era successo, ma non l’hanno fatto. Mi hanno detto solo che ho diritto a un avvocato.

Mi auguro che Stefano faccia attenzione a Marta, in questa stagione si ammala sempre. E chi darà il latte a Ettore? Io vorrei che me lo portassero qui: dopotutto, se un’infermiera mi aiutasse, riuscirei ad allattare. Cosa vuol dire se ha già tre anni? Sempre che il latte io lo abbia ancora, perché in effetti, ora che ci faccio caso, mi accorgo che i miei seni sono sgonfi, svuotati. Sarà stato lo spavento, oppure è colpa di tutte queste medicine.

Ripenso continuamente alla festa, anche quando sono sveglia. È stata bella. Infinitamente elegante e infinitamente triste, almeno per me. Ma i ricordi sono confusi. Lei aveva quel vestito blu elettrico lungo, la borsa firmata e le scarpe con i tacchi. Era una di loro, io no. Lui certo mi ha scelta proprio per questo, perché non sono così. Sono più autentica e più indifesa. Lui mi ama solo tra le alghe e gli stecchi dimenticati dal mare; in una camera d’albergo con la carta da parati consumata, tra cespugli di spine, nel buio di una notte senza luna. Però mi ama con tutto sé stesso, e questa è l’unica cosa importante.

Perché non è ancora venuto a trovarmi? Mi ripetono che devo riposare, ma io non sono stanca. Alla festa le donne erano tutte belle, tutte eleganti, e gli uomini pure. Ma lui era diverso, mi sembrava che il magnetismo dei suoi occhi mi raggiungesse anche quando tra di noi c’erano le pareti, i camerieri che servivano, la gente che parlava e parlava, gli oggetti preziosi, antichi, inutili. Il suo sguardo me lo sentivo addosso, sempre, eppure lui mi passava accanto senza vedermi. Per lui ero un’estranea e i suoi occhi mi penetravano suo malgrado. Lei era la moglie e io non ero nessuno. È stato il mio diventare nessuno a riempirmi di rabbia. L’umiliazione nel vedere i suoi occhi grigi passarmi attraverso mi ha piegata in due come un pugno nello stomaco. Ma io volevo esserci. Lui era lì e, lo sapevo, sarebbe arrivato il momento in cui mi avrebbe dato uno dei nostri segnali. È stato per quello che ho aspettato ostinata e ottusa, rimanendo a guardare una commedia dove un’altra recitava il ruolo che avrebbe dovuto essere il mio.

Devono avermi aggredita mentre rientravo, eppure non lo ricordo. Mi ricordo invece il suono dei miei passi contro l’asfalto, i lampioni, le bottiglie di birra per terra. Il portone chiuso, la mia mano che fruga nella borsa per cercare le chiavi. Ricordo una voce di donna che mi dice di non piangere. Le parole mi rimbombano nella testa e mi fanno male. L’amante. La polacca. La troia. Le sentivo anche mentre mi trovavo alla festa, dove nessuno le diceva. È stato lui, sì, lui a volere che io ci fossi. Per potermi guardare. Ma io mi sono vergognata, e non so neppure il perché.

Le ore qui sono lunghe. I miei figli mi mancano come l’aria; a volte stringo il cuscino e immagino di abbracciarli, poi dopo un attimo vorrei fare a pezzi la federa piena di gommapiuma: è priva di vita e nemmeno in lei trovo la verità. I pensieri non tornano, la realtà va in pezzi. Non possono che avermi aggredita e soccorsa per strada, ma io ricordo di essere entrata in casa e di aver trovato Ettore che dormiva sul divano e Marta sveglia, con gli occhi assonnati. È rimasta immobile a guardarmi per qualche secondo poi mi ha detto: – mamma, dov’eri? Ho freddo –. Io l’avrei voluta stringere a me ma non l’ho fatto. Ero troppo disperata, troppo arrabbiata. Con lui, con la vita. Marta indossava un vestito rosso ed era lieve come un fantasma. I miei figli erano bellissimi e a me non importava, volevo solo morire. Però non potevo lasciarli soli, no. Il mondo è crudele, inganna e ferisce sempre i più deboli.

In questo giorno che non è un giorno, rivedo le facce dei miei bambini nella sera che ora mi pare l’unica reale; Ettore che dorme, Marta che è sveglia ma muore di sonno. In questo ospedale che non è un ospedale, nella stanza accanto alla mia qualcuno fa cadere a terra qualcosa di molto pesante. E finalmente, in un istante, ricordo tutto. Ricordo gli occhi spalancati dei miei figli che mi fissano e non mi riconoscono. Le mie mani su di loro come corde di un boia. Ricordo lo squallore del nostro soggiorno povero e arredato con poca cura e il salto nel vuoto, con i miei figli morti stretti al petto. Quel volo doveva portarci in un mondo migliore. Forse, loro, sì. Io invece sono atterrata qui: il mio inferno è ancora sulla terra.

Adesso sento la voce di lui. Sembra venire dal corridoio. Forse è arrivato a salvarmi. Provo un tuffo al cuore quando scopro che c’è anche lei.

– Non potete vederla, mi dispiace. Siete parenti? – chiede loro qualcuno.  – No. Era la nostra colf, una brava donna – dice lui –, l’avevamonvitata alla festa per i quarant’anni di mio fratello perché da quando il marito se n’èornato in Polonia ci sembrava molto giù di morale. Io la conosco poco perché a casa non ci sono quasi mai. Mia moglie ci parlava più spesso di me –. Poi, silenzio. Forse si aspettano che sia lei a dire qualcosa, ma rimane muta. Mi pare di sentirla singhiozzare. Me la immagino vestita ancora come la sera della festa, con il vestito lungo blu elettrico e i tacchi alti. Dopo un po’ anche lei comincia a parlare. Ripete la parola “bambini” infinite volte, piange.

Ora se ne sono andati, e io sono di nuovo sola. Anche le bugie erano meglio della solitudine. Perché ora so. Ormai non riesco più a pensare alla festa, né a sognarla, ma vedo solo gli occhi sbarrati, allucinati, terrorizzati di Ettore e Marta.

La mia pena consiste nel non poter più morire.

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