Racconto di Lorenzo Iannelli

(Prima pubblicazione)

 

 

“Non ho capito, ripeti”.

Andrea non poteva ripetere quello che non aveva detto. Non lo aveva ancora detto. Non lo avrebbe detto neanche dopo, lui lo sapeva, lo sapeva anche lei.

“Ho detto ripeti” disse, senza che si smuovesse un solo capello del suo chignon.

Come faccio a ripetere quello che non ho detto, quello che non so?

“Andrea, allora ripeto io: quanto fa 5 diviso 2?”

Andrea aveva una voce flebile come la luce di una candela. Lui che cantava nel coro della scuola, e non faceva come tanti suoi compagni, anche più grandi di lui, che si mettevano nelle retrovie e aprivano la bocca fingendo di intonare i canti degli alpini, senza emettere un suono. Lui cantava, con timbro stentoreo, forte e basso, da baritono in erba. Ma lì, in quei momenti, che la maestra insisteva a rendere tanto consueti quanto interminabili, in piedi con le braccia sottili, una manina che stringe forte forte il gesso e l’altra che strofina di continuo il grembiulino blu, con i ditini che andavano su e giù, rapidi ed armonici, la voce ad Andrea proprio non voleva venir fuori, anche se avesse avuto qualcosa da dire, niente, solo un soffio di vento muto.

“Per l’ultima volta, dimmi quanto fa 5 diviso 2”, e questa volta sembrò quasi che la voce della maestra, abitualmente monocorde, avesse assunto una variazione impercettibile verso l’alto, accompagnata da un trascurabile corrugamento della fronte.

“Il 2 nel 5 ci va una volta con il resto di…” furono le uniche parole dette e che quella mattina non sarebbero state seguite da nulla, se non da un insostenibile silenzio il cui peso dipendeva immancabilmente solo da lei, a cui decideva, a suo inappellabile giudizio, quando porre termine con il suo rituale e sospirato: “Bene…”

Tutti i compagni sapevano che, anche stavolta, avrebbero visto la maestra alzarsi lentamente dalla sua sedia, spostandola dietro, senza farle emettere il benché minimo rumore, separandosi apparentemente di malavoglia dalla cattedra di legno scuro, e dirigendosi verso la lavagna, senza distogliere per un solo istante i suoi occhi da quelli di Andrea.

Non provavano paura, perché quella è una sensazione che nasce dall’ignoto, che ti spaventa proprio perché non immagini cosa ti aspetta, non conosci il finale. Quello che tutti gli allievi della IV B del 41° circolo sentivano non era paura, non poteva esserlo, era tutto così chiaro, così conosciuto, così familiare. Era terrore, di sapere che avrebbero ascoltato una volta ancora la stessa storia, che avrebbero assistito alla stessa scena, che avrebbero partecipato allo stesso finale, senza possibilità di poterlo cambiare.

“Togliti gli occhiali”.

Andrea inforcò la montatura con un gesto remissivo e fluido della manina imbiancata, che gli dipinse la tempia, dopo aver posato il gessetto, lentamente, ma senza che trascorresse un solo istante dalla direttiva bisbigliata dalla maestra.

Si sentì un rumore duro, pesante, seguito da uno più forte, cupo, che rimbombò per l’aula muta. La lavagna, malgrado l’urto, restò ferma, anche Andrea. La sua fronte sembrava ancora più rossa per il contrasto con il bianco della polvere di gesso accanto alle basette, corte e ordinate, che ogni tanto si portava dietro le orecchie per far accomodare meglio gli occhiali, che dall’ultimo banco non si vedono bene quei numeri, che forse sono difficili proprio perché questi occhiali si muovono, e mi fanno vedere male, e poi le divisioni non le riesco a fare…

“Ora mi saprai dire quanto fa 5 diviso 2?”, chiese la maestra con una riacquistata calma, mai smarrita del tutto, ma ora più raccolta, più sicura.

Ad Andrea scorreva silenziosa una lacrima, che rigava il suo viso, ma non per il dolore. Scendeva lenta e seguiva il suo sentiero battuto perché sapeva che avrebbe di nuovo ascoltato quella storia, quella di sempre, e che avrebbe dovuto assistere a quello stesso finale chissà per quante altre volte ancora.

“Maestra, non si picchiano i bambini”.

La voce si sentì chiara, dal primo banco della fila centrale, quella di fronte alla cattedra, arrivando come un’onda di fiume in piena fino alla lavagna. Il silenzio che seguì fu più acuto di quello che regnava prima. Le palpebre si sforzavano di rimanere alzate al loro posto, in alto, per non oscurare la vista di quella scena agli occhi increduli e sgranati di tutti. Non era mai accaduto, in quasi tre anni e mezzo, che qualcuno, in quell’aula, avesse parlato senza permesso e che si fosse alzato dalla sua sedia, in piedi, a farlo. La maestra, stordita, non riuscì a dissimulare uno stupore enorme, inferiore solo a quello mio. Non potevo credere che a dire quella frase, senza alcuna esitazione, fossi stato io.

Si alzò anche Giulia. La sentii scendere dalla sedia troppo alta per toccare, da seduta, con i piedi a terra, anche lei senza chiedere permesso, anche lei con voce leggera e lucente come il trillo di una sveglia, che ti scuote da un sonno agitato e troppo breve.

“Non si picchiano i bambini”.

Il fermo immagine della maestra rimase lì, tra gli occhi finalmente asciutti di Andrea e la grande lavagna che sembrava si potesse staccare dal muro da un momento all’altro per inghiottire tutti con la sua oscurità. Lei era rimasta lì, immobile, spenta, per un attimo eterno.

Non aveva paura. Non puoi averne se conosci il pericolo a cui vai incontro, se sai cosa ti potrà succedere. Era terrorizzata, da qualcosa di indistinto, ma di cui sarebbe stata il sicuro bersaglio. Infatti io non ero semplicemente Alessandro De Cicco, 9 anni a maggio, quello con il fiocco stirato la sera prima da mamma Teresa, ma solo dopo aver usato la sua matita rossa e quella blu, soprattutto quella blu, per le correzioni dei temi dei suoi “sfaticati” allievi e le scarpe lucidate da papà Elio ogni domenica, prima della messa di mezzogiorno, con la cromatina, che “tiene” per tutta la settimana: io ero soprattutto, e quasi esclusivamente, il nipotino della Sig.ra Adelaide Improta, già Direttrice didattica, ispettrice del Ministero, che tutti consideravano “terribile”, tranne me, che la vedevo solamente come nonna Dada, molto seria quando giocavamo a dama e briscola, o simpatica quando sgridava le mie cugine che a suo giudizio studiavano poco e male economia domestica, che è la base della vita sociale, come ripeteva spesso, e solo a loro.

Quella che più di tutti la “ammirava”, come ripeteva immancabilmente in occasione dei colloqui con i miei genitori era la maestra. Molto tempo dopo capii che se sei abituata a terrorizzare, vuol dire che vivi nella certezza che i superiori possano terrorizzare te.

La sospensione del tempo fu interrotta dal suono della campanella che richiamò tutti alla ricreazione, riportandoci in una dimensione di realtà sbiadita, i cui contorni rimasero per noi molto annebbiati, anche quando la maestra, avvicinandosi a me e a Giulia disse, composta: “Voi due impiegherete bene questi minuti dell’intervallo, e farete capire ad Andrea come si fanno le divisioni”. Era il suo modo per dare l’adeguato risalto al nostro intervento, concedendo a noi l’alto incarico di soccorrere l’amico in difficoltà. Ci considerava evidentemente degni di una tale missione, almeno così ci sembrò di capire…

Qualche mese fa la maestra ha compiuto 100 anni. Siamo andati a trovarla io e Giulia; Andrea, dopo aver sentito al citofono: “Salite, cari i miei bambini”, è rimasto giù, accanto al cancello di ingresso. Ha fatto bene. Lo vedevamo dal secondo piano, ogni tanto, dal balconcino del salotto. La sua mano delicata da pianista eseguiva gli amati arpeggi lungo la ringhiera, su e giù, ma io e Giulia eravamo certi che se li avesse percorsi su una tastiera avrebbe emesso un suono insolitamente dissonante.

Anche noi abbiamo fatto bene a salire. Abbiamo trascorso del tempo con lei, che ormai ci sente poco, ci vede meno e non cammina più. Bisogna prendersi cura delle persone fragili, vanno accudite, vanno sostenute. Lo sapevamo, fin dalla IV elementare, ora lo abbiamo anche capito. Non è una colpa essere un adulto inadeguato al mondo dei bambini, lo diventa se non capisci che l’umiliazione che impartisci ad un bambino lo può rendere inadeguato al mondo che incontrerà.

Oggi la campanella ha suonato prima, o almeno così mi è sembrato. È che quando sei preso dall’argomento, quando senti che coinvolge te e pure quelli che ti stanno intorno, intendiamoci, caso raro e quasi unico, beh, quando questa magia avviene…quel suono vibrante, solitamente liberatorio, ti costringe a rimanere sospeso a mezz’altezza, con la forte sensazione che quell’emozione, proprio quella che provavi, esattamente in quel momento, dopo non sarà più la stessa. Forse sarà anche più bella, ma non sarà quella. Un po’ come il secondo predestinato assaggio di pasta al forno, sarà perché si è raffreddata, o chissà perché, non sarà mai come il primo.

Durante l’intervallo do una rapida scorsa ai temi. Oggi non sia mai li chiami così, sono verifiche…

Dando una rapida lettura a quello di Antonio Somma, trovo ciò che già sapevo avrei trovato, e che sistematicamente sottolineo con la penna blu: non c’è mai stata una volta, una sola volta che sia una che, indipendentemente dalla traccia, che può essere: “Era una notte buia e tempestosa…”, oppure: “Scrivi una lettera al tuo amico immaginario”, immancabile, come gli struffoli a Natale, non ci piazza: “Da grande voglio fare l’eletricista, come papà”, con una “t” sola…

Lo guardo, rassegnato ancor più che sconsolato. Gli urlo: “Tonì, ma è possibile mai che per trecento volte ti correggo “eletricista”, e tu puntualmente me lo riscrivi tale e quale, con una sola “t”?!”

Mi guarda. Risponde con un sorriso al mio, solo un po’ più grande, mentre divide il suo panino con la mortadella con Salvatore e Lello. Io so che da grande sarà veramente un bravo eletricista, anche con una “t” sola.