Racconto di Serena Parisi
(Prima pubblicazione – 2 giugno 2021)
“Ma chi me l’ha fatto fare?” si chiese Julian passandosi una mano fra i capelli.
Stava camminando più o meno da mezz’ora, evitando accuratamente le strade più affollate, dove la fauna cittadina entrava e usciva freneticamente dai negozi, nel pieno della propria trance consumistica. Il riverbero del sole sulle vetrine gli feriva gli occhi, ogni dettaglio storto lo infastidiva. Era nervoso.
L’aveva incontrata due giorni prima. Il caffè era gremito, gli chiese se poteva sedersi al suo tavolino. Vecchio trucco, pensò subito Julian. Accennò di sì con la testa e chinò di nuovo lo sguardo sul libro. Ma si sentiva osservato e perse comunque la concentrazione. Lesse lo stesso rigo sei volte senza dare un senso alle parole, finché, esasperato, ripose un vecchio biglietto del tram fra le pagine e le chiuse rumorosamente. Di sottecchi la vide sorseggiare il caffè con impaccio, gli occhi puntati nella sua direzione si erano probabilmente fermati sulla strada e sui passanti oltre il vetro. Non si accorse che gli stava parlando perché la sua voce si confuse col rumore della pioggia che aveva ripreso a cadere.
“Come dice?”
“Leggeva?”
“No, studiavo.”
“Ah.”
Julian sfilò il pacchetto di sigarette dalla giacca, l’aprì e glielo porse. Lei fece segno di no con la mano. Per fumare Julian si voltò di lato, sfuggendo completamente al suo sguardo. Sentì di nuovo la sua voce in un soffio, schiacciata stavolta dal chiacchiericcio sempre più fitto dei clienti nel caffè.
“…Non credo verrà più la mia amica. Eppure aveva detto qui.” Tossì leggermente. “A lei andrebbe di andare al cinema? Sa, non mi piace andarci da sola…” Altro vecchio e banale trucco per adescare clienti, si disse Julian, a metà tra il fastidio e il compatimento.
“Guardi, c’è la locandina qui fuori. Le Amiche. Ho sentito dire che è un film importante,” continuò lei. L’irritazione di Julian arrivò alle stelle.
“Mi dispiace. Domani devo dare un esame. Non posso far tardi.” rispose sempre evitando di posare gli occhi su di lei.
“Capisco.” Si alzò e prese la borsetta dal tavolino. “Comunque io sono Marta.” Gli si avvicinò e gli porse la mano.
“Julian. Piacere.” Ebbe giusto il tempo di vederle gli occhi verdi incupiti dal viola pallido delle occhiaie, anche se doveva aver superato da poco i vent’anni.
“Perché non dopodomani? È sabato.” insisté lei increspando le labbra in un sorriso che sembrò costarle parecchia fatica. Julian si sentì spiazzato.
Era arrivato all’entrata del cinema, arrabbiato con sé stesso per essere troppo in anticipo e per non aver saputo dire di no. Ora voleva liberarsi al più presto di quest’appuntamento, come di un dente che gli facesse male. Gli arrivò sotto il naso una folata di vento impastata di salsedine e un che di agrodolce; respirò a fondo per imprigionarla nei polmoni. Marta, che già aspettava lì davanti, era tutt’uno con gli ultimi riflessi di sole che filtravano fra i palazzi, tant’è che Julian quasi non la notò.
“Quella ragazza del film era ben strana. Secondo me non si è uccisa per l’amore deluso, anzi. Gli amori non vissuti sono i migliori” fece Marta appena furono fuori dalla sala.
“E perché mai?”
“Così non dai il tempo all’altra persona di venirti a noia.”
“Mi sembra un’osservazione parecchio cinica.”
“Cinica vuol dire cattiva?”
“Beh… quasi.”
“Allora secondo te perché la ragazza del film si uccide?”
“Mah, non so…”
“Per me la colpa è tutta dei soldi. Se non ne hai troppi, allora studi o lavori, e non hai tempo per i grilli.”
Cinica e materialista, dedusse fra sé Julian. “Anche l’autore del romanzo da cui è tratto il film si è ucciso” aggiunse.
“Che peccato” rispose Marta dopo una pausa. “Avrebbe potuto scrivere tante altre cose belle. Gli scrittori non dovrebbero mai uccidersi” concluse. A Julian venne la curiosità di osservarla meglio e si voltò leggermente. Alla scarsa luce dei lampioni, il bagliore verde degli occhi non era più visibile, aveva lasciato il posto a due macchie d’inchiostro stanche.
“Cos’è che studi?” riprese Marta senza alzare lo sguardo.
“Medicina.”
“Dev’essere bello poter passare le giornate fra i libri.” La sua voce si fece bassa e rauca. “È per questo che cerco di vedere i film dei romanzi. Il biglietto del cinematografo costa di meno, e così è un po’ come se li avessi letti. Sai, non guadagno molto.” Si fermò. “Io abito in questa strada. Grazie della compagnia.” Gli porse la mano.
“Come sarebbe?” Julian la guardò stranito.
“Come sarebbe che?” rise Marta.
“Non vuoi che salga?”
“Mi piacerebbe offrirti un caffè, ma la padrona non fa salire estranei.”
Julian arrossì fino alla punta dei capelli. Tornò a respirare quando capì che Marta non sospettava nemmeno dell’equivoco.
“Allora ciao.” La vide sparire all’interno del portone gigantesco e male illuminato e si allontanò. Di tanto in tanto qualche raffica nera di vento sollevava piccoli vortici di polvere nelle strade, scuotendo i suoi pensieri intorpiditi dalla vergogna.
Nei giorni che seguirono, Julian rimosse l’incontro con Marta come un episodio il cui ricordo imbarazza e dà fastidio. Ovviamente sapeva benissimo che l’imbarazzo e il fastidio era qualcosa in lui a crearli. E infatti tornarono precipitosamente a galla quando, esasperato dalle lunghe giornate di studio, si alzò con furia dalla scrivania per scappare fuori di casa. “Dev’essere bello poter passare le giornate fra i libri” gli tornò in mente d’un tratto mentre si precipitava in strada, ne fu seccato. Ebbe un pensiero, ma lo scacciò ancor prima di formularlo con chiarezza. Ostinato, il pensiero tornò e lui con uguale ostinazione lo riscacciò. Quando fu per mettere piede nel bar dove gli amici lo aspettavano, il pensiero si ripresentò per la terza volta, reso più caparbio dai precedenti rifiuti, e vinse.
Si ritrovò così a indugiare sul marciapiede di fronte all’enorme portone. Nella strada stretta si respirava ancora la pioggia del giorno prima, era umido come in una cantina. A un tratto lo circondò di nuovo quel profumo agrodolce, familiare e nuovo insieme.
“Julian.” Sobbalzò leggermente e si voltò. “Arrivi giusto in tempo, ho finito adesso di lavorare. Andiamo a mangiare? Sto svenendo dall’appetito.” Le parole di Marta lo investirono come un’improvvisa pioggia primaverile, fresche e sottili. Il suo sorriso questa volta aveva abbandonato l’imbarazzo e fatto posto a una pacata sorpresa. Julian non ebbe tempo di aprire bocca che si trovò seduto alla trattoria lì vicino, Marta di fronte a lui già gli chiedeva se gli andavano spaghetti ai frutti di mare e lui annuì.
“Allora?” chiese lei, gli occhi le si schiarirono e cambiarono colore come quelli dei gatti.
“Allora che?” fece eco Julian.
“Come stai?”
“Come al solito.”
“Hm. Oggi invece sono contenta. La signora al negozio ora mi fa aiutare anche le commesse. Prima facevo solo le pulizie. Così mi dà 300 lire in più.”
“Mi fa piacere. Ascolta, ero venuto solo per…” Arrivarono gli spaghetti.
“Aspetta! Me lo dici dopo. Non mi piace parlare e mangiare. Senti che profumo…!”
Marta sembrava avesse un appetito lupigno. Mentre prendevano il caffè a Julian tornò in mente l’equivoco del primo incontro qualche settimana prima. Per scacciare il fastidio che gli recava si decise a estrarre il pacchetto dalla tasca della giacca. Con l’indice lo spinse piano sul tavolo in direzione di Marta. Lei lo guardò perplessa. Julian fece un cenno d’incoraggiamento con la testa.
Sfilati delicatamente spago e carta, Marta rimase per qualche minuto imbambolata. Contemplava il volume quasi fosse una reliquia.
“Così stavolta l’avrai letto per davvero il romanzo.” disse Julian in un soffio. Marta non staccava gli occhi dalla copertina. Lesse il titolo ad alta voce, vi passò la mano sopra, lo aprì e ne annusò le pagine, come per assaporarlo con tutti i sensi. Alzò lo sguardo chiaro su Julian.
“Grazie.”
Fuori dalla trattoria, del mare arrivava soltanto il respiro pesante, sembrava un gigante che dormisse sotto una coperta nera, esausto.
“Prima non mi fermavo mai da queste parti. Ogni cosa mi pareva nuova e inafferrabile, e il mare più di tutto mi faceva stare inquieta, spaesata.” Marta ruppe il silenzio scuro della sera senza luna.
“È tanto diversa la tua città?”
“Beh, ero abituata ai posti ristretti. Vicoli, terrazze, chiese minuscole.”
“Come mai sei venuta qui allora?”
“Prima lavoravo in fabbrica. Poi un giorno si decise di fare sciopero. Ci licenziarono tutte. Allora dovetti cercare un posto da un’altra parte. Per via di quello sciopero lì non volle prendermi più nessuno, nemmeno a servizio.”
“Sei stata ben sfortunata…” Julian sospirò amareggiato. “Sai una cosa che faccio ogni tanto per scacciare la malinconia? Passeggio cercando gli angoli più nascosti delle case, per intravedere i tetti, le scale nei cortili, gli archi… immaginare una fetta di vita altrui, un po’ come al cinema, no?”
“Che gli oggetti in una stanza ti raccontano la vita delle persone.”
“Proprio così. Pensa che anche questi sono posti che qualcuno ha nel sangue.”
“E tu?” chiese bruscamente Marta “Tu ce l’hai nel sangue questo posto?”
“Boh… Dipende.” Julian sorrise schivo, voltando leggermente la testa.
La domenica successiva, nel pomeriggio opaco, Julian aspettava. Al caffè sostavano pochi avventori per commentare le notizie sportive fra loro. Il fumo delle sigarette intorpidiva l’aria, Julian schiacciò l’ennesima cicca nel portacenere, maledicendosi per esserci cascato anche stavolta. Torvo e disilluso, si alzò lentamente, estrasse delle monete e le lasciò sul tavolino, uscì.
Fu contro la sua stessa volontà che arrivò nella strada stretta, di fronte all’enorme portone. Bussò. Non venne nessuno ad aprire. Qualche minuto dopo si spalancarono le imposte di una finestra al primo piano.
“Che volete?” si sentì solo una voce, sbrigativa.
“È qui che abita Marta?”
“Che Marta vai cercando?” comparve la testa arruffata di una ragazza. “Aspetta.” Scomparve di nuovo, sostituita prontamente dal mezzo busto di quella che doveva essere la padrona di casa.
“È partita ieri mattina. Ha ricevuto un telegramma, pare che il padre non stia tanto bene.”
“Ha detto per quanto tempo starà via?”
“Non ne so nulla. Ha piantato la stanza senza uno straccio di preavviso. Almeno sono riuscita già ad affittarla a qualcun altro.”
“Non conosce per caso il suo indirizzo?”
“Vi ho detto che non ne so niente. In ogni caso io questo mestiere non lo faccio, giovanotto!” Le imposte si richiusero.
Julian si allontanò a passo svelto, senza una vera direzione. Si sentì improvvisamente stanco di pensare, la sua mente si era svuotata. Camminava come faceva spesso da bambino, in fretta e senza voltarsi indietro, colpito da quelle fiabe in cui il giovane in viaggio per liberare l’amata sarebbe arrivato a destinazione solo a patto di non fermarsi mai a guardare il cammino percorso. Altrimenti, l’incantesimo malvagio l’avrebbe fatto riprecipitare ogni volta al punto di partenza.
Era tornato al caffè, che a quell’ora cominciava a ripopolarsi. “Così non dai il tempo all’altra persona di venirti a noia,” si fecero spazio le parole di Marta fra il silenzio attonito dei suoi pensieri. Julian sorrise senza volerlo a quell’eco così dolce così amara.
Belle descrizioni! Bel finale, mi è piaciuto.