Racconto di Serena Penni

(Seconda pubblicazione)

 

Sono passati solo tre anni eppure, sulle prime, non mi hai riconosciuta e hai avuto l’istinto di evitarmi. Deve essere per via del mio strano cappello. Avevo pensato che ti avrei proposto di andarci a sedere in un caffè, ma quando ho visto la faccia che hai fatto, ho capito che non ti saresti mai presentato con me in un locale pubblico. Siamo ancora qui, a guardarci negli occhi senza dire una parola.

Alla sera tornavi tra le sette e le otto, eri quasi sempre di buon umore, portavi il pane fresco acquistato al forno vicino al tuo ufficio e spesso anche dei dolci: frittelle o cenci se era Carnevale, pan di zenzero se era Natale, pasta di mandorle o biscotti con il cioccolato se non c’erano ricorrenze imminenti. I bambini ti correvano incontro, tu li baciavi sulle guance e li accarezzavi sulla testa.

Sono venuta per dirti tante cose, ma adesso non riesco a parlare.

Il mondo in cui vivevamo era uno dei tanti mondi possibili, aveva i suoi equilibri, le sue regole. Alla sera la bambina si esercitava al pianoforte mentre il gatto rosso se ne stava sulla poltrona del salotto con aria malinconica; il bambino faceva i compiti. Era Sylvie, la nostra domestica, a pulire la casa, lavare, stirare. Io non facevo quasi nulla. Ero molto bella. Non posso darti torto se adesso non mi riconosci. Non posso darti torto se, chiuso nel tuo piumino Monclaire, ringrazi il cielo che sia buio, e che la luce dei fari delle automobili non giunga fin qui.

Quando sono iniziati gli incubi, non mi sono preoccupata. Del resto, mi capitavano solo di notte, anzi, di mattina presto, e il suono della sveglia li allontanava da me come un panno con cui si pulisca un tavolo dalle briciole. Una volta però ho sognato di essere immersa fino al collo in una palude piena di alghe e animali acquatici che mi si appiccicavano addosso. Il sogno era talmente realistico che quando mi sono svegliata ho passato qualche secondo a osservare le mie braccia, le gambe, la pancia, e mi sono stupita nel trovarle pulite. Dalla finestra chiusa filtrava già un po’ di luce, ho riconosciuto la nostra stanza, l’armadio, la cassettiera, il lampadario. Ho riconosciuto te che dormivi accanto a me, ma tutto questo mi sembrava estraneo. Era come se la palude mi richiamasse a sé, come se mi mancasse qualcosa. Mi sono alzata e sono andata in cucina. Il gatto rosso è venuto a strusciarsi contro le mie gambe. Mi sono seduta a terra per accarezzarlo, poi lentamente mi sono accasciata sul pavimento e mi sono addormentata.

Oggi ho tutto quello di cui ho bisogno. Fatichi a crederlo, lo so, ma è così. Però è da qualche giorno che ho un desiderio. È per questo che sono qui, per chiederti un favore. E presto la mia voce riuscirà a uscire dal petto, ne sono sicura.

Quando mi sono addormentata sul pavimento era primavera. Già all’inizio dell’estate, di notte non dormivo quasi più. Ho iniziato ad addormentarmi di giorno. Facevo incubi di continuo e al risveglio cacciarli era sempre più difficile. Cercavo, terrorizzata, avvoltoi appollaiati sugli armadi, serpenti che mi stringevano i polsi e insetti che mi ronzavano in gola. Forse avevate capito che c’era qualcosa che non andava. Tua madre ha iniziato a fare delle improvvisate, con la scusa di portare dei regali ai bambini o del cibo. Una volta – faceva già un caldo insopportabile, di lì a pochi giorni saremmo partiti per il mare – è venuta a trovarmi con un’enorme ciotola di insalata di riso. Ho avuto l’istinto di spingerla giù per le scale. Non volevo aiuto, non così. Ma non mi riuscivo a spiegare, non riuscivo a chiedere, e giorno dopo giorno affogavo nel mio silenzio.

Un tempo mi hai amata, credo. Oggi, dietro a un parcheggio di periferia, distogli imbarazzato lo sguardo dal mio, per portarlo in basso, verso le cicche, i fili d’erba e le cartacce.

A un certo punto ho cominciato a fare sempre lo stesso sogno. Mi ritrovavo chiusa in un pozzo stretto e profondo. La luce riuscivo solo a intravederla. Arrancavo per risalire ma era inutile. Giorno dopo giorno, vi sentivo più lontani. Solo il gatto rosso, col suo sguardo malinconico e penetrante, pareva capirmi, come se conoscesse anche lui il pozzo senza speranza.

Col malessere sono arrivati anche la rabbia e i sensi di colpa. O forse c’erano sempre stati, chi lo sa. La bambina faceva i suoi esercizi al pianoforte senza sentimento, senza amore. Il bambino protestava tutto il giorno e alla sera si metteva a fare i compiti di malavoglia. No, non erano felici.

I tuoi occhi mi fuggono perché temono di vedersi riflessi nei miei. Sono lucidi come la superficie di quello che per un periodo è stato il nostro mondo. Dove avevo sbagliato? Il giorno in cui me lo sono chiesto, pioveva a dirotto. Guardavo dalla finestra le persone che passeggiavano sotto ombrelli colorati. La risposta è arrivata quasi contemporaneamente alla domanda. Sono nata nel momento sbagliato, da persone sbagliate. Quando ho potuto, sono scappata. Tu ti sei innamorato di quella che non ero. Ci siamo sposati e abbiamo costruito un magnifico e perfetto castello di carta. Non ti ho mai amato, non ho mai amato nessuno, nemmeno i figli, nemmeno il gatto rosso. La risposta è arrivata crudele e inequivocabile. E allora ho capito che, per salvarci, avevo una sola possibilità.

Mi guardi con aria interrogativa, mi accorgo che cominci a spazientirti.

Quel giorno sono uscita di casa senza un cappotto, senza una borsa, senza un ombrello anche se pioveva. Per strada, dei ragazzi schiamazzavano e ridevano. Dalla porta socchiusa di un locale proveniva musica jazz. Le insegne luminose dei negozi si riflettevano nelle pozzanghere. Mi sentivo dolorosamente libera. Il resto lo sai, la porta dell’infelicità non sono mai più riuscita ad aprirla.

Dei miei incubi non ti ho mai detto nulla. Non ti ho mai detto neppure dell’incendio al mare, durante le nostre ultime vacanze insieme. Ero seduta a un bar, da sola, bevevo un aperitivo sul lungomare, guardando il sole che tramontava e la gente che camminava carica di roba da spiaggia. A un certo punto ho visto alzarsi una nuvola di fumo nero. Quell’immagine mi è tornata in mente tante volte. Era la mia vita che si dissolveva, mentre tutti voi diventavate fantasmi. Tu, i bambini, Sylvie. Tua madre, il gatto rosso. Ho sentito un groppo alla gola che mi ha fatto correre a casa – la casa che avevamo affittato per la stagione – e chiudermi in bagno. Avevo gli occhi lacrimosi per il sole, il vento, la stanchezza e il senso oscuro di una perdita imminente.

Non ti ho mai detto che i bambini sono infelici e non te lo dirò neanche adesso. Non ti ho mai detto del mio terrore di perdere tutto. Non ti ho mai detto che il dolore più grande è stato rendermi conto di non volere più nulla di ciò che avevo.

Adesso, mentre guardo le mie scarpe sformate, mi chiedo come sono diventata quella che sono oggi. Ho scoperto che era bello dormire all’aperto, ma ben presto è arrivato il freddo vero. Una sera qualcuno mi ha portato alla casa di accoglienza. Mangio e mi lavo solo quando è possibile. Indosso gli abiti che la gente butta nei cassonetti della Caritas – alcuni sono molto simili, quasi identici a quelli che portavo un tempo. Forse ho un cattivo odore, mi dispiace. Finalmente, la mia voce viene fuori.

-Scusami se ti ho disturbato. Insomma, scusami di tutto. Un giorno ti spiegherò, ora non ce la faccio. Ma c’è qualcosa che desidero con tutta me stessa. Vorrei rivedervi insieme. Ti chiedo di radunare tutti, una sera, con qualche scusa. Io mi siederò sulla panchina da cui si vede la sala da pranzo. Nessuno si accorgerà di me e, se anche mi vedessero, nessuno mi riconoscerebbe.

La tua espressione adesso è distesa. Sembra che un grosso peso ti abbia abbandonato. Ho smesso di farti paura. Forse ti sei abituato al mio odore, al mio aspetto. Forse hai solo capito che non tornerò più, che anche io sono un fantasma per te. Mi tendi la mano.

-Lunedì prossimo va bene?

-°-

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