Racconto di Lorenzo Iannelli

(Seconda pubblicazione)

 

“O il benzinaio, o l’insegnante”.

Hai presente quando ricordi perfettamente il momento in cui si è verificato qualcosa di importante per te, il luogo in cui ti trovavi, i colori e gli odori nell’aria che ti pervadevano, ma non riesci a collocarlo in un tempo preciso? Quando è chiaro a te e alla tua mente che quell’episodio è davvero capitato e ne porti nella memoria la luce del sole filtrata dalle finestre, il tepore primaverile, il vocio, chiaro e indistinto al tempo stesso, delle persone intorno a te, ma non lo puoi collocare in un giorno, non in un anno e nemmeno in un periodo esatto della tua vita? L’unica cosa di cui sei certo è che è accaduto diversi anni fa, non troppi da dimenticarne il perimetro, non troppo pochi da inquadrarlo limpidamente in un preciso contorno temporale. Una cosa però la puoi dire: che è successa da piccolo, che è un’espressione generica e precisa al tempo stesso, perché da un lato è un discrimine tra presente e passato, uno spartiacque tra ciò che sei e ciò che non sei più, dall’altro non ti dice quando hai smesso veramente e definitivamente di essere piccolo ed è cominciata la seconda fase della tua vita. Quella da grande.

La domanda era chiara, ineludibile. Era scritta, l’avevi copiata, e dovevi rispondere, in modo argomentato e in un tempo preciso, non troppo breve, in verità, ma pur sempre circoscritto. Gli altri grondavano di preoccupato sudore, apparecchiavano il loro banchetto delle più numerose e variopinte penne che si potesse, come se i colori e la quantità degli strumenti fornissero soluzioni per i problemi, risposte per le domande e sapienza per l’inettitudine. Io invece non ho mai patito particolarmente le scadenze imperative, perché non le consideravo tali, né in quanto scadenze né tanto meno in quanto imperative. Ricordo che quando dovevo svolgere i compiti assegnati per le vacanze, e che puntualmente mi riducevo all’ultimo momento utile per terminarli, i miei insistevano, fin dal primo giorno: “Lorenzo, sbrigati a farli, che ti togli il pensiero”, a cui sistematicamente e con candida sincerità rispondevo: “Ma io il pensiero non ce l’ho …”

Con il tempo ho affinato la mia attitudine. Negli anni successivi non si è mai verificato che ci fosse stato un giorno, uno solo, in cui fossi andato a scuola e che non fossi impreparato almeno in una materia: io, come minimo su un argomento, che fosse la guerra greco-gotica, o la critica della ragion pratica o le fasce climatiche, dovevo essere impreparato, e ho orgogliosamente rispettato fino in fondo questo impegno morale preso con me stesso. Statisticamente erano mediamente tre (più spesso due) i quotidiani buchi neri della mia conoscenza a farmi da sereni e fedeli compagni di banco nelle mie giornate scolastiche, tuttavia sempre e comunque da me vissute all’insegna di olimpica tranquillità. Non mi limitavo a lacune su paragrafi di storia, erano voragini di complete epoche. Ancora oggi credo fermamente nella validità dell’imperituro insegnamento di Croce: a fronte di indiscutibili corsi e ricorsi, perché studiare ogni periodo della Storia? Cui prodest? Sarebbero noiosi e ripetitivi sprechi di tempo, in tutti i sensi, del cui risparmio, modestamente, ho fatto un imperativo categorico ed ecologico.

Non avevo dubbi: o il benzinaio, o l’insegnante. Per forza. Cosa avrei voluto fare altro? Due lavori che affascinavano quel bambino di tanti anni fa, anche se non saprei dire quanti. Più correttamente li consideravo mestieri, li vedevo come servizio, come ufficio, “ministerium”, alla latina (si è capito che il latino l’ho studiato bene, eh?). Tanto apparentemente diversi, quanto affini tra loro, più di quanto appaia.

Ricordo la maestra Imma, intorno alla fine di aprile, al rientro a scuola dopo le vacanze. Quell’anno Pasqua cadeva tardi, era già caldo fuori e il giardino della scuola sapeva di girotondi, di grilli e di scambio di figurine. Al rientro in classe dopo la ricreazione, che la maestra allungava o abbreviava a seconda di come ci comportavamo, trovammo scritto sulla lavagna, con un gessetto verde: “Cosa farai da grande?”. Lei ci disse di copiare la domanda su un foglio protocollo staccato dal nostro quaderno a righe: in alto, a sinistra, con la penna rossa, poi poco più giù “Svolgimento”, dopo averlo piegato a metà, per lasciare posto alle immancabili correzioni a destra. Indicazioni sempre uguali e ripetute sempre, allo stesso modo, così come sempre, e allo stesso modo i soliti Francesco Barra, Francesco Principe (gli unici due ad essere chiamati per nome e cognome, per non confonderli, e che a loro piaceva, che così vengono chiamati i grandi), Rossella Buonocore e Stefania Vargas proprio non riuscivano a piegare in due colonne quel foglio, più difficile di quando mamma deve piegare da sola le lenzuola matrimoniali…

Non c’è domanda che non ti venga posta e che non ti ponga tu, da piccolo, più spesso di quella. Me la facevano gli amici in estate al mare, i nonni a casa loro la domenica, la mia fidanzata, Alessandra, all’uscita di scuola: solo a lei rispondevo con una bugiarda verità, che era la risposta che sentivo più sincera: “Tuo marito”. A tutti gli altri rispondevo sempre: “O il benzinaio, o l’insegnante”. Secondo me mi facevano sempre questa domanda per sentire sempre la stessa risposta, che faceva ridere ed incuriosire tutti. “Ma che c’entra il benzinaio con l’insegnante?!”. Potevo replicare che era senz’altro meglio della risposta che dava Dario Del Giudice, il nipote dell’Avvocato Saverio Gregorio Del Giudice, “principe del foro”, chiamato così nel nostro condominio, a vai a capire poi perché un principe decide di fare l’avvocato, e pure in un buco…Dario rispondeva, sul pianerottolo della nostra scala, alzando un po’ il mento verso Nord-Est, ad occhi semichiusi e a bocca semiaperta: “Da grande, farò il torero o il Papa”…Quella risposta, all’epoca, la trovavo molto più strana della mia, anche se oggi, se ci penso bene, una certa coerenza…

Ma che dovevo dire? Perché mi fate questa domanda? Non nel senso che volevo che si facessero i fatti loro, ma perché io, tutta ‘sta stravaganza della mia risposta, proprio non la capivo. Ma non riuscite davvero a vedere quanti punti in comune abbiano il benzinaio e l’insegnante? Però c’è da precisare una cosa: io non volevo essere né un comune benzinaio, né un comune insegnante, eh no. Non il benzinaio che ti riempie a metà il serbatoio quando tu gli dai cinquemila lire, non l’insegnante che ti spiega la differenza tra le Alpi e gli Appennini quando glielo chiedi. No.

Io voglio sorridere da lontano all’automobilista che arriva da lontano, con la freccia inserita duecento metri prima della pompa di benzina, che sta ad indicare a tutti, ma soprattutto a me, che sta venendo a fare rifornimento, e non solo di gasolio. Io, da garbato padrone di casa, gli indico sorridente con l’indice del braccio sinistro, puntato verso la colonnina, l’esatto posizionamento che dovrà assumere la sua autovettura, per il controllo della pressione delle ruote, del livello dell’olio e dell’acqua del radiatore, della pulizia del vetro davanti e pure di quello di dietro, che per fare manovra mica puoi avere il lunotto tutto sporco! E poi, dopo l’avvenuta fornitura, mi avvicino al finestrino, gli do il resto delle diecimila lire, gli riconsegno le chiavi, che tintinnano tra l’indice e il pollice della mia mano e gli auguro: “Buon viaggio”, come quelli che dopo il varo della nave, con relativa bottiglia di spumante rimasta rigorosamente intatta, salutano l’imbarcazione che salpa verso mete inimmaginabilmente esotiche.

Io voglio entrare in classe vedendo il sorriso del mio alunno ed uscirne a fine ora con lui che vede il mio. Io gli voglio mostrare le difficoltà della strada, gli inciampi del percorso, ma non i suoi: i miei. Voglio smussare gli angoli della mia esistenza fingendo che siano della sua, e se dopo troverà un senso nelle divisioni a due cifre, nella differenza tra verbi attivi e passivi, nell’eternità della pietà di Ettore per Priamo, non avrà bisogno dei miei auguri di buon viaggio.

L’unico aspetto negativo di questi due mestieri è che non saprai che strada prenderanno gli automobilisti e gli alunni, dove dirigeranno i loro obiettivi e le loro aspettative, quali tappe faranno, che mete raggiungeranno. Forse, il benzinaio e l’insegnante dovrebbero porre una domanda, all’automobilista e all’alunno: “Cosa farai da grande?”, sono certo che sarebbero contenti di rispondere.

Non mi ricordo se tutto questo l’ho scritto in quel tema, di tempo ne è passato troppo, anche se non so di preciso quanto. Ricordo però che, dopo averlo consegnato e prima che la maestra me lo restituisse corretto, ebbi la netta convinzione di aver superato un intoppo, come un ciclista che scavalla la collina e guarda soddisfatto e stanco prima la salita fatta e poi il percorso in discesa che lo aspetta, ma che non vuole intraprendere subito. Vuole godersi entrambi, per un po’, solo per un po’, sapendo che la salita è finita, e che la discesa sta per iniziare.

“Alice, sei sveglia?! Ma lo sai che sono le sette e quaranta e che tra venti minuti dovresti stare in classe?”

“Ma lasciala stare, lo sai che ha i suoi tempi, e poi riesce sempre ad arrivare in tempo, anche se si riduce all’ultimo momento”

“Senti Alessandra, non avallare questa insopportabile indolenza di tua figlia! Se non le stiamo addosso fin da ora e non insistiamo, chissà che ci diventa da grande!”

“Non ti dare pena, Lorenzo, ognuno trova la sua strada, anche nostra figlia la troverà, prima o poi e con…”

“E con i suoi tempi! Sì, sì, lo so, tanto è già inutile combattere con te, figurati pure con la tua alleata! Veleno, veleno puro, a prima mattina. Chissà che magia hai fatto per strapparmi quel sì…Va bè, ora devo scappare pure io, che devo sostituire Lo Bianco in 2 B, che non è manco classe mia”.

Alessandra mi accompagna con lo sguardo. Sa che non mi pesa affatto entrare un’ora prima. Mi guarda da lontano, senza dire niente. Io riesco ad ascoltare il suo pensiero a bassa voce, un sorridente “buon viaggio” mi accompagna.