Racconto di Federico Piacentini

(Prima pubblicazione)

 

Quando l’animale entra nel cerchio l’arena cade nel silenzio. Solo contro tutti, il toro avanza seguendo lo sventolio dei drappi. Sulla sabbia attende. Il boato come un fiume di voci indica che il matador, dalla parte opposta, sta facendo il suo ingresso. L’animale, confuso dagli schiamazzi sembra non capire, lo guarda come in un vuoto di eternità. Attende. Il drappo rosso che il matador porta al fianco inizia a muoversi nel vento. Il toro lo punta, non può immaginare di essere già morto. Che la sua carne sia già stata venduta al macello prima che inizi quella pantomima. Nel vuoto del pomeriggio afoso la banderilla si solleva in aria.

Il cielo scuro al crepuscolo sembra una pozza d’acqua sporca striata dal gasolio. Grigie nubi spumose ribollono a sud portate dal vento. L’odore della polvere da sparo, acre, arriva alle narici spinto dalla stessa aria che proviene da paesi lontani, forse ancora liberi e trasforma la città in un’enorme fucina. Dalle colline li abbiamo visti scendere. La fila di camion, gli uomini grigi e i cannoni. Sembrava un serpente uscito dalla pozza fangosa del cielo. Lo stallo è quasi più inquietante della guerra. Vedere quelle armi inerti per giorni, nelle campagne bigie e lugubri, rende il cuore miserabile. Ma stasera li ho visti muoversi, avanzano verso di noi. Non propriamente verso di noi, in obliquo, a circa cinquecento metri di distanza. La fila di mezzi pesanti circonda il quartiere. Dalla finestra noto il cannone di un carrarmato che ruota con calma sospirosa fino a inquadrare il nostro palazzo. Siamo il loro bersaglio. Stringo la mano di Lina che tiene in braccio Anna. Sento che ha ancora la fede al dito nonostante i nostri gioielli siano finiti sulla piazza del mercato nero. La piccola resta in braccio alla madre, non piange neanche più, rimane con lo sguardo nel vuoto, come un pupazzo. Il carrarmato nemico è fermo. Il cannone puntato su di noi.

Il matador schiva le corna, il drappo, come la gonna in un passo di danza, abbranca la testa del toro. La banderilla puntata sulla schiena, una stoccata rapida ma decisa che si infilza nella pelle, sprizzando sangue. Il matador esulta alzando il pugno verso la folla matta di trionfo, che grida e batte le mani a tempo. Il toro ansima, gira in tondo, sbuffa aria di polmone sulla sabbia, sbava schiuma rossastra con l’asta che pende sulla schiena. Un ragazzo corre porgendo una spada. Il matador l’afferra e la solleva. L’acciaio brilla nel sole di fine giornata.

Il fischio è tremendo. Spinge i timpani, li perfora quasi, è seguito da un silenzio macchiato di paura recondita. Il boato che lo segue ci lancia in aria. Fumo denso, calcinacci sulle spalle, in terra, in aria, polvere sulla testa, mani sul ruvido cemento, solo, di nuovo fumo denso poi una scossa, cado, anzi no, sono già a terra, il fischio riprende forte ma non nei timpani, nel cervello. Quando la polvere si dirada, la facciata squarciata lascia vagare lo sguardo su quelle terre disperate e malsane, come fosse un’immensa finestra sul dolore umano. Mi alzo, scuoto i vestiti, devo avere della polvere in bocca perché sputo senza pensarci e tossisco anche e cerco disperatamente Lina e Anna. Le trovo rannicchiate accanto a un armadio. Pezzi di stoviglie, sanitari, mattoni e corpi umani sono tutti mescolati nel centro del grande ventre aperto dell’edificio. Afferro la mano fredda di Lina e la trascino sul retro, come se lì ci fosse salvezza, riparo, un prato in fiore nelle primavere miti. Iniziamo a scendere, non sento nulla tranne il cuore che rimbalza sui timpani e la mano sudata di mia moglie. Le scale del retro sono ancora salve, le finestre mi permettono di vedere ogni volta che scendo di rampa gli scoppi e i fumi dell’artiglieria nella campagna grigia. Scavalchiamo un corpo che per metà è carne nera da cui escono le braccia. Una marionetta carbonizzata il cui ventre rigurgita una massa informe di budella. Il secondo colpo è ancora più forte del precedente. Il mondo diventa scuro, sento tremare il palazzo e poi più nulla sotto i piedi. Cado anche se mi sembra di volare, leggero per un attimo come se la pesantezza del mondo non avesse più senso.

Ho perso la mano di Lina.

Quando la spada cala tra le vertebre cervicali verso gli organi interni il toro non è ancora morto. Il rumore dei legamenti fibrosi tranciati determina l’inizio della sua lenta agonia. Scuotendo la testa l’animale muoverà inevitabilmente la lama che come un pendolo affilato, lacererà vasi, nervi e tegumenti. È la vera causa della morte. L’animale si agita, ignaro di questo meccanismo, circondato dai toreri che gli sventolano drappi in faccia. Non ha più la forza di incornare. Volge la testa a destra e a sinistra, si piega sulle ginocchia delle zampe anteriori e sputa una boccata di sangue che gli impedisce di respirare. Finalmente, quando cade, il matador afferra la spada e la torce con un movimento secco. Il toro rotola sul fianco, le zampe rigide di morte.

Mi sveglio che ormai è notte. Sono ricoperto di macerie e polvere mischiata a un liquido oleoso. Un forte odore di gas mi riempie le narici. Riesco a muovere le braccia. Poi le gambe. Mi libero dai detriti e sollevarmi in piedi è una sorpresa. Il fischio mi perfora ancorala testa. Il palazzo è completamente sventrato ma lo scheletro nero è rimasto in piedi orgoglioso in faccia al nemico. Siamo noi che siamo caduti. Fa freddo. Da una voragine nel pavimento arrivano bagliori di fiamme che bruciano insieme all’odore acido della carne bruciata. Trovo Anna in un angolo, rannicchiata dietro una credenza che vomita piatti e bicchieri spaccati. La chiamo e non risponde. Le corro accanto, mi tuffo, la scuoto, la tocco. Respira, trema. La abbraccio e tasto quel corpicino intirizzito. È tutta intera. Nonostante le sue resistenze dopo un minuto è in piedi, una macchia scura impiastricciata di sangue e capelli le colora la parte destra della faccia. Le chiedo dove sia la mamma. Silenzio. Urlo e il suono viene inghiottito da quel mostro di ossa e macerie. Anna immobile indica un punto in basso, attraverso la voragine. Mi accuccio sul bordo, vedo vestiti sparsi, tappeti anneriti, vetri spezzati, tavoli torti e un corpo immobile.

Il matador con in mano le orecchie e la coda del toro, appena strappate dal cadavere, cammina seguendo il contorno dell’anfiteatro. Significa che ha effettuato egregiamente il suo lavoro, per questo rose rosse e cappelli cadono dagli spalti. I toreri svelti li raccolgono e glieli porgono così che il matador li restituisca con leziosi gesti ai proprietari. La gente applaude e fischia di gloria. Nessuno guarda più il cadavere del toro. È nero eccetto qualche macchia di sangue causata dalle mutilazioni. Il cadavere viene legato a un carro e trainato via. Lascia una striscia rossa sulla sabbia cocente come una nuova strada di dolore che si forma nel deserto delle nostre anime.

La pala smuove la terra dura della fredda notte. Il dolore sordo provocato dalle vesciche rende più lento il lavoro. Mi guardo le mani sporche di sangue e fango. Avevo una fede, alla mano sinistra. Ora ne ho due. La seconda è stata tolta dal cadavere che ho ai piedi. Da ore sto scavando. Verso lacrime sul suolo umido e schifoso della periferia. Anna sdraiata accanto alla madre è caduta in un sonno profondo, disumano. Quando finisco di scavare la fossa, nel giardino abbrustolito del condominio, un chiarore accennato cresce inesorabile rischiarando il quartiere e i suoi morti. Scosto la piccola che non si sveglia dalla salma fredda della madre. Le si è addormentata sopra. Non sa che non la toccherà mai più. In ginocchio mi chino e sfioro le labbra di Lina. Labbra fredde come l’aria e il cuore del mondo. Le ho baciate migliaia di volte ma mai abbastanza. La sollevo, è leggerissima, sembra quasi levitare da sola nell’aria. A parte le ferite e la pelle ustionata, il viso bianco di porcellana, avvolto in un fazzoletto azzurro, ricorda una Madonna. Lancio quel corpo pietoso nella fossa vergognandomi di invidiarla. In quella cavità gelata e sudicia troverà più calore che in questo futuro. La sagoma scompare con un tonfo nel buio. Getto le fedi nella fossa. Ormai niente ha più valore. Un tozzo di pane, una carezza, un passaggio lontano da qui valgono uno sparo, un’esecuzione, una vita. Anna continua a dormire, come se in questo modo potesse cancellare i giorni graffiati di strazio e svegliarsi in un campo di fiori a giocare, com’era solita fare nei giorni di primavera. Spero dorma per sempre, o almeno fino a quando tutto questo sarà finito. Se mai finirà il male del mondo. Mentre spalo per coprire i resti di Lina la colonna di soldati mi sfila accanto. Entrano nella città che hanno appena distrutto, cantando inni gloriosi, in una lingua straniera. Tengono i fucili molli lungo i fianchi e sventolano i loro drappi per aria. Nessuno si volta a guardarmi mentre la carne bianca scompare sotto la terra rivoltata ma dopo il loro passaggio si vede sulla strada una striscia rossa. La fila di uomini che si allontana ricorda un’enorme carcassa. Non sanno che sono già morti. Lo sono stati appena hanno imbracciato i fucili. E adesso lasciano sul selciato la scia untuosa dell’orrore.

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