Racconto di Dami

(Prima pubblicazione)

 

Cammina per strada, immersa come sempre nei suoi pensieri.

È un tiepido pomeriggio di ottobre. Il cielo è limpido e terso, gli alberi cominciano ad avere le fronde spoglie e i rami, protesi verso il cielo, sembrano voler catturare gli ultimi raggi di sole. Le foglie dorate, rossicce, punteggiate di verde, cadendo rimandano un fruscio dolce e pacificante. Alcune, ormai secche, si sono accartocciate al suolo come piccole pergamene e quando le si calpestano producono uno stranoscricchiolio.

Le giornate lentamente si accorciano. Da un bar giunge all’esterno il profumo intenso di caffè e di the alla cannella. Il paesaggio naturale sembra stridere con quello urbano, caotico: il traffico, la gente, i clacson. Un cane di piccola taglia scodinzola festoso al suo padrone. Un ragazzo corre scansando con maestria i passanti, un uomo in là con gli anni, curvo, procede con un passo lento, ma leggero. Una donna segnata sul viso dal fumo e dalle preoccupazioni sulla soglia del suo negozio.

La vita va, scorre.

Lei è lì, dentro quel quadro, ma ha la sensazione, ormai consueta, di essere invisibile.

L’essere o forse meglio il sentirsi invisibile l’ha sempre contraddistinta, accompagnata, è sempre stato parte della sua esistenza. Si è sempre chiesta, da cosa potesse avere origine quella sensazione: eppure la sua vita, sembrava assolutamente simile a tante altre, un marito, un lavoro, i figli. Perché quindi quella percezione così netta, nitida, di essere trasparenti?

Non opachi, trasparenti.

Come quando la luce affilata del mattino si riflette su un vetro appena pulito.

Si ferma distratta davanti alla vetrina di un piccolo negozio del centro: alza lo sguardo, involontariamente, automaticamente. I suoi occhi sono color ambra, i capelli castani con delle leggere striature dorate, leggermente ondulati. Il naso piccolo, la bocca porpora. La pelle bianca, gli zigomi appena pronunciati.

Porta una maglia scura con un piccolo bordo grigio, jeans e delle comode scarpe da ginnastica. Un cappotto morbido e nero con una sciarpa pesante e avvolgente completano la figura.

La sua immagine riflessa sembra non attirare minimamente la sua attenzione: ha sempre sottovalutato la sua femminilità, l’ha sempre negata, mai esaltata, a volte mortificata.

Ricorda di avere guardato con ammirazione, in alcuni momenti della sua adolescenza, la vita delle monache di clausura, attratta proprio dal loro nascondimento, dalla loro scelta di celare dietro abiti semplici e austeri il loro corpo. Chissà perché proprio il corpo l’aveva sempre tormentata. Lo guardava come un’appendice, come altro da sé, come un oggetto da esaminare, analizzare, guardare con sospetto, pulire, ignorare. Mai nessun piacere associato però, niente da esibire, ma al contrario tutto da rendere inconsistente.

A volte si scopriva a desiderare di invecchiare: nessuno guarda il corpo dei vecchi, finalmente sarebbe stata legittimata a sbarazzarsene.

Non voglio pensarci.

Non sento niente, non sento niente, si ripeteva, come un mantra rassicurante e sinistro al tempo stesso.

Due ragazzi seduti al tavolo in legno di un pub, chiacchierano sorridenti di fronte ad un calice di vino bianco, ad una birra scura e a dei piccoli arancini adagiati su un piattino con dei graziosi fiorellini blu.

Mangiano, bevono, chiacchierano, si sorridono, con aria complice, intima.

Anche il cibo, il nutrimento che rappresenta per molti una fonte di piacere, di gratificazione, non lo era affatto per lei. Lo guardava da sempre con uno strano timore, con sospetto: poteva nutrirla, è vero, ma al tempo stesso avvelenarla, contaminarla, addirittura ucciderla. La contaminazione, altra sua fonte di sofferenza.

Il corpo che entra in contatto con il cibo o, ancor peggio, con altri corpi. Che orrore.

Il corpo e di conseguenza anche il sesso erano sempre stati due estranei per lei, due strade parallele o forse un incrocio solo temporaneo che porta a destinazioni diverse e per questo lontane. Il sesso vissuto da sempre come qualcosa di inutile, sbrigativo talvolta colpevolizzante.

Aveva sempre posto le distanze da uomini che avrebbero potuto, in qualche modo, farle cambiare idea.

Quando era molto giovane, aveva conosciuto un ragazzo. Ad una festa, a casa di amici, aveva ballato stretta a lui…ricorda ancora le sue braccia intorno alla vita, l’odore fresco e pulito sulla sua pelle misto al profumo legnoso del dopobarba. Alla fine della serata lui le aveva chiesto di uscire. Il giorno dopo l’aveva aspettata, con una macchina sgangherata, sotto casa …l’emozione per quell’incontro era stata così forte da farle tremare le gambe mentre scendeva le scale di casa e nel breve tratto di strada che la separava da lui.

È difficile da vivere questa strana cosa, aveva pensato dopo, ho tanta paura. Meglio finirla lì subito, ritirarsi al più presto nel proprio comodo e al tempo stesso claustrofobico nascondiglio, senza perdere un solo attimo. Non lo merito, lui mi lascerà e se ne andrà. Smettiamo subito, prima che inizi, prima che sia troppo tardi.

In realtà, da quel momento così fortemente impresso e inciso nella sua mente, non aveva più provato niente di così forte. O forse la sua mente aveva rimosso.

Quando lui le chiese di sposarla, lei non si oppose. Avrebbe voluto aspettare: ma non lo fece.

Lui l’aveva convinta, con il suo modo di fare, che fosse normale avere paura, che quell’inquietudine che sentiva così dirompente, sarebbe passata.

Ricorda di non avere provato di fronte ai preparativi del matrimonio quella gioia spensierata e incosciente che normalmente dovrebbe accompagnare questo momento. Ma si era convinta che dipendesse unicamente da lei. Che era fatta così. Si era lasciata prendere, trasportare, non ancora pienamente consapevole dei propri desideri, di ciò che veramente avrebbe potuto renderla felice.

Gli voglio bene e questo basterà, deve bastare.

Lui, di fronte alle sue stranezze, pensava semplicemente che fosse fatta così, che fosse semplicemente complicata, forse naturalmente programmata all’infelicità. E che la cosa non dipendesse in alcun modo da lui. O forse gli faceva piacere pensarlo, perché andare più a fondo avrebbe significato probabilmente mettere a nudo una realtà magari scomoda, difficile da accettare. Meglio tacere. Va tutto bene.

Come vorrei sentire, sentire, sentire. Finalmente sentire.

Leggere e studiare le piaceva: quasi che nello studio pensasse di potere trovare una forma di riscatto, una forma di compensazione della vita negata.

Leggere per lei significava immergersi totalmente in un mondo diverso, visto attraverso gli occhi di altri, tentare di comprendere i complessi meccanismi che muovono la realtà. Significava anche conoscere il possibile oltre il vero, ciò che sarebbe potuto essere oltre a ciò che è. Immedesimarsi nella storia significava perdere momentaneamente il controllo della propria vita, quasi a ricordarsi che purtroppo, o per fortuna, non si ha presa sulle vicende. Grazie alla lettura poteva entrare in una quantità inesauribile di esistenze, di luoghi, di tempi.

La mente che prende il sopravvento sul corpo, che lo domina… come l’immagine di alcuni santi che premono il calcagno sul collo del demonio…ecco così…fai così, sembrava suggerirgli.

Nel suo lavoro si era trovata dentro quasi per caso, ma poi era diventato, pian piano, con il tempo, parte di sé, il suo habitat naturale. Era diventata segreteria di una multinazionale: si occupava della gestione del front office e della posta, dello smistamento delle telefonate, della redazione di documenti, del disbrigo e dell’archiviazione di pratiche, dell’inserimento di dati contabili nel sistema gestionale, della pianificazione dell’agenda appuntamenti per conto della direzione.

Lì, nello svolgimento di azioni ormai meccaniche, abitudinarie, dimenticava per un momento il vuoto, il peso, l’assenza.

Chi sono gli altri? Cosa vogliono da me?

 

Questa domanda frullava spesso nei circuiti labirintici della sua testa. Nonostante ciò, appena interagiva con un qualsiasi rappresentante del genere umano, il suo atteggiamento non era freddo, distaccato, algido come ci si sarebbe potuto aspettare, ma al contrario autenticamente cordiale, sorridente, accogliente.

Non sarebbe riuscita, anche volendo, a fare diversamente. In nessun caso. Certo aveva imparato quell’atteggiamento, con l’esercizio, con la maturità, con gli anni. Doveva trattarsi di una conseguenziale strategia di sopravvivenza, di un modo bislacco di trovare un necessario adattamento ad un mondo percepito come ostile. E le riusciva benissimo in fondo. Brava, continua così, questo si diceva.

“Salgo da mia madre” – aveva pensato. A passo veloce aveva imboccato il corso principale e poi a destra sul viale che portava da lei. Da quando si era ammalata, passava a trovarla ogni giorno con un misto di desiderio e paura. La amava, da sempre e comunque, ma non accettava di vederla così fragile e dipendente: lei che era sempre stata una donna forte, indomita, bella, elegante. Entrava nella sua stanza con la gioia di trovarla lì e il timore di leggere la sua sofferenza. Di fronte a lei era convinta di mostrare una tranquillità che la madre, conoscendola fin nel profondo, percepiva subito come artificiosa: lungo le scale fuori dalla casa in cui era vissuta fino al giorno delle nozze, le lacrime scendevano spesso inesorabili, piene, inevitabili, incontenibili.

Quel dolore le entrava nella carne, nelle viscere, come una stilettata ma al tempo stesso la faceva sentire per un momento, in quel momento, viva, faceva sentire ancora vivo quel corpo e quel cuore in anestesia, chiuso nel congelatore.

Perché quel senso di estraneità nei confronti di sé stessa e del mondo?

Perché la sensazione di non sentire mai una felicità piena?

Perché dopo qualunque piccola o grande gioia, gratificazione, soddisfazione si ritraeva subito, quasi pensando di non meritare nulla di buono?

Perché?

Quelle domande la tormentavano, la lasciavano senza fiato, non le davano tregua. Mai.

Il senso di solitudine poi…sentirsi invisibile e sola mentre gli altri proseguono nelle loro vite, incuranti, inconsapevoli.

Spettatrice della vita, senza desideri e senza progetti.

Un automa che si muove per inerzia. Questo sentiva di essere diventata.

Era così piccolo e spaurito quando è nato, uno scricciolo biondo e rugoso, con la pelle bianca come la neve d’inverno. Ecco quello per lei era stato uno dei momenti più intensi e felici della sua vita. Quella sensazione di esserci finalmente, di essere utile, di essere riuscita e generare la vita, quel senso di completezza.

Vederlo crescere, sentirsi indispensabile, profondamente amata…che meraviglia. Gli anni della scuola poi, l’adolescenza. Da quel momento non era più riuscita a condividere le sue scelte, il suo modo di guardare il futuro, la sua scarsa ambizione, quel non rispondere alle sue aspettative. Le inevitabili discussioni avevano creato una frattura, un rapporto emotivamente altalenante: l’amore sconfinato da un lato, la disapprovazione, la critica e il giudizio dall’altro. Una ferita sempre aperta con cui fare ogni giorno i conti e che aveva sempre cercato, anche in questo caso, di anestetizzare. Come tutta la sua vita del resto. Aveva sempre avuto la sensazione infatti di essere senza pelle, di sentire troppo e quando era troppo, nasceva inevitabilmente in lei il bisogno urgente e irrevocabile di non sentire, la speranza, di nuovo, del vuoto, del nulla.

Ciao, come stai? Che piacere vederti. Quanto tempo è passato. Ti trovo bene, gli disse passandosi lentamente le mani tra i capelli. Avrebbe potuto vestirsi e truccarsi con più cura e invece niente. Il solito maglione, il solito paio di pantaloni scuri, rimmel e burro cacao.

Non si erano più visti dai tempi della scuola. Forse incrociati qualche volta, ma mai più visti, mai più parlati, mai più niente.

Ci vediamo, ciao.

 

Si erano salutati senza alcuna aspettativa, distrattamente.

Ma poi si erano rivisti. Di nuovo, per caso.

L’aveva colpita il suo sguardo. La guardava negli occhi, come se volesse carpire, scoprire il segreto della sua anima.

E la sensazione era nuova e adrenalinica.

Chissà che vorrà da me, sicuramente mi trova invecchiata. Avrà notato le piccole rughe attorno agli occhi o quelle che scendono lunghe attorno alla bocca.

Ma lui sembrava proprio non vederle. Le diceva che era bella e che lo era stata da sempre. Che era ancora bella.

Gli sorrise, mentre la sua mente cominciava di nuovo il suo mantra.

Ma cosa dici, sei impazzito? Non dire stupidaggini. Hai visto bene?

Ti ricordi? Sono quell’adolescente con gli occhiali troppo grandi, i capelli troppo lunghi, quell’adolescente silenziosa, infagottata in maglioni pesanti, larghi e lunghi.

Quella ragazza senza corpo. Quella ragazza sempre ben nascosta, persa da qualche parte a guardare la vita degli altri.

Sono invecchiata, ho un brutto carattere, sono sbagliata e in più non sento niente.

Niente, ti è chiaro? Niente!

Ma il caso o il destino ordisce la sua trama, sfuggendo al controllo degli umani. Cominciarono, chissà perché, ad incontrarsi spesso.

Ehi ciao! Si era rifugiata, a passo svelto, sotto una pioggia fine, in un giorno qualunque, nella caffetteria vicina all’ufficio.

Andava spesso lì, nei momenti di pausa o solo per rilassarsi un po’. Poteva stare da sola e pensare, davanti a una tisana calda o ad un buon libro. Il personale la conosceva, la accoglieva sorridente e sembrava anticipare ogni suo desiderio. E lì lo aveva rivisto. Il cuore aveva cominciato la sua corsa e questo non andava assolutamente bene. Assolutamente.

Ciao! Un caffè grazie! Ehi come ti va? Come stai? Ecco che la solita maschera faceva la sua comparsa, mentre contemporaneamente una parte di lei le sussurrava di lasciare perdere, che tanto non faceva per lei, forse te lo sei dimenticata, sei invisibile, hai un brutto carattere, si diceva.

Taci! Taci! Una volta per tutte! Questa volta taci!

Avevano cominciato a parlare intensamente, a raccontarsi le loro esistenze. Si erano detti molte cose, quasi a volere colmare il vuoto degli anni trascorsi, in cui non c’erano l’uno per l’altra. Il tempo era passato velocemente, ma in quel momento sembravano quasi sospesi in uno spazio indefinito, in una bolla. Le voci degli altri avventori in sottofondo non sembravano distrarli, scalfirli. Tutto sembrava tremendamente perfetto. Quindi mi vede, pensava, quindi esisto, quindi non sono trasparente, esisto.

Era una sensazione nuova per lei. O comunque non la sentiva da molto tempo. Uno strano e insolito benessere l’aveva pervasa, stava lì e sembrava non abbandonarla.

I suoi occhi scuri, liquidi, luminosi sembravano frugarle dentro. La sua mano calda e affusolata l’aveva appena sfiorata. Sentiva il suo respiro. Taci, taci, taci, ripeteva.

Di lui aveva un ricordo sfuocato. A scuola non l’aveva mai notato, in quel momento non poteva, non aveva il coraggio di alzare gli occhi per guardare il mondo. Non si era mai accorta di lui. Ora era un uomo ed era davanti a lei e la guardava con occhi vivi, profondi.

Allora questa magia esiste? Questa sensazione di sentirsi protetti, al sicuro, pieni. La sensazione di essere nuda e di non vergognarsi, perché finalmente ci si vede per come si è e questo è appagante, nonostante tutto.

Ti lascio il mio numero, chiamami.

Sono molto impegnata, chissà. Magari più in là. Adesso non posso. Sai gli impegni, la famiglia, il lavoro.

 

Quando puoi, se puoi.

Da quel giorno avevano cominciato a sentirsi ogni giorno, a parlare tanto, quasi convulsamente. Spesso, troppo spesso.

Il pensiero di lui era diventato sempre più presente, ma lei fingeva di non accorgersene. Però, al tempo stesso, non si riconosceva più. Sono felice di averti incontrato, le disse un giorno. Chi, cosa, perché? Che stai dicendo, non ti rendi conto di quello che dici, chi credi di essere, non lo fare mai più.

Sentiva la sua espressione cambiare, i muscoli del viso ad un tratto erano diventati tesi, rigidi. Si era indurita. Improvvisamente. Scusa avevo dimenticato di avere preso un impegno, mi dispiace, a presto, gli aveva detto.

Che vuole da me, come si permette, doveva essere un gioco, un inutile, stupido gioco e basta.

Non vedi che sono invisibile, trasparente, non vedi quelle piccole rughe intorno agli occhi e quelle che scivolano giù, lungo le labbra. Non vedi che non esisto, non vedi che non ho corpo, che non ci sono?

Sei bella. Mi piace il tuo modo di parlare. Mi piace quello che pensi, come lo esprimi. Mio Dio che dice, io non sono niente di speciale, niente di che, meno di niente direi, sono strana io.

Sicuramente non vede, non capisce, sicuramente.

Lascialo perdere e poche scuse. Niente rimorsi o ripensamenti.

Dentro di sé però, a guardare bene, continuava a sentire un’energia nuova e leggera, che le prendeva la pelle, il cuore, la mente.

Si insinuava piano scuotendo dal di dentro i tessuti, i pensieri.

Forse sono viva, posso essere viva, posso esserlo davvero?

Datemi un po’ di anestesia, ora. Ne ho bisogno. Sento di nuovo bruciare. Fa male.

Devo cancellare il suo numero, il suo viso. Devo fingere di non averlo mai conosciuto, ignorarlo.

In un impeto irrazionale e prepotente lo chiama e, con una scusa assolutamente banale e apparentemente incomprensibile, gli dice delle cose che non pensa, in modo violento, con una precisione quasi chirurgica.

Ecco così finalmente uscirà dalla mia vita e non ne parleremo più.

Ci dimenticheremo l’uno dell’altra e sarà di nuovo come sempre.

Cosa pensa di fare, cosa. È un uomo come tanti e come tanti, assolutamente superficiale disinteressato alla vita di una donna, incapace di sentirla davvero, di leggerle dentro. Chiamare in causa i soliti stereotipi sul rapporto uomo donna era estremamente rassicurante in fondo. Già da domani non esisterai più. E sarò finalmente libera di tornare nella mia prigione. Non ti avrò mai incontrato.

E infatti la vita riprende il suo solito corso, lento, amebico, asfittico.

Fino ad una fredda sera di gennaio in cui sferza un colpo orrendo, cruento.

Una telefonata. La mamma.

È tutto finito. Sapevo che sarebbe successo, ma non ora. Non così.

Un dolore forte, lancinante la sommerge inesorabile. Seguono mesi di torpore, di niente.

Uno strazio immane. Una fatica incommensurabile nel compiere i normali gesti quotidiani.

Non sentirò più la sua voce, ripeteva, non sentirò più il calore della sua mano, non sarò più accarezzata dal suo sguardo, dai suoi occhi.

Nulla più dietro di me. Nulla più davanti a me. Nella palude.

E sempre, di nuovo, il gelo.

La gente continua il suo vorticoso movimento. Chiacchiera, vive, progetta.

Io invece sono trasparente. Nessuno riesce a penetrare veramente dentro il mio mondo, a guardare il mio dolore. Facile sfiorarlo, ma entrarci dentro no. Troppo complicato. Nessuno vuole sentire il dolore.

È come vivere dentro ad una fortezza, con il ponte levatoio rigorosamente alzato. Inaccessibile, anche a chi volesse solo circumnavigarne le mura.

 

Una sera di marzo poi, inaspettatamente, mentre si muoveva in macchina, stancamente, nel traffico, una sensazione terribile la invade…Prima il sudore che le imperla la fronte, le tempie. Poi freddo, tanto freddo. I battiti del cuore cominciano ad accelerare, la vista si offusca. Quindi il tremore, la sensazione di soffocamento, il dolore al petto, la nausea. Il tempo di accostare l’automobile mentre si ripete:” È finita, è finita…sto morendo o sto impazzendo”. Chiude gli occhi, quasi ad aspettare rassegnatamente l’ultimo appuntamento con la vita. Ma poi, dopo lunghi, interminabili minuti, inaspettatamente, questa riprende il suo flusso, di nuovo i rumori, di nuovo il sole che filtra attraverso le nuvole grigie, di nuovo gli odori, il cuore e il respiro riprendono a poco a poco il loro ritmo naturale. Inspira ed espira, inspira ed espira.

Sono ancora qui, sono ancora qui, si era detta.

Aveva sentito parlare degli attacchi di panico, una sua cara amica ne aveva sofferto a lungo. Mai avrebbe pensato che sarebbe potuto accadere anche a lei. Come quando aveva sentito parlare della nausea gravidica e si era convinta che fosse solo un’invenzione della gestante usata per farsi coccolare un po’. Finché non l’aveva sperimentata di persona e si era resa conto che esiste, davvero, altro che invenzione. Ecco, la stessa cosa sembrava essere accaduta in quella strana giornata.

Scende dalla vettura e comincia a camminare a piedi, piano. Le gambe le fanno ancora male, i muscoli sono ancora tesi, affaticati. Ma l’aria è fresca, cristallina, le sferza il viso, le mani, la nuca.

Vuoi ancora vivere così?? Taci, smettila, lasciami qui. Non voglio sentire, non voglio sentire. Non esisto, non vedi che sono trasparente? Non opaca, ma trasparente.

Vuoi ancora vivere così? Di nuovo quella voce, flebile ma decisa.

Vuoi ancora vivere così? Ripeteva ancora e ancora e ancora.

Si, non esisto. Non vedi che sono trasparente? Non opaca, ma trasparente.

Ad un tratto la stretta alla gola, ma questa volta solo il tempo per lasciare fluire le lacrime. Lunghe.

Liberatorie. Pesanti.

I capelli lunghi e corposi appena mossi dal vento, le gote accese, un golf cammello sporge dal piumino chiaro, quasi a volere richiamare il colore dei suoi occhi.

Si guarda per la prima volta intensamente, profondamente, appieno, a lungo. Il suo sguardo è supplichevole ma espressivo, inquieto ma penetrante.

Forse ci si definisce, si diventa umani, solo attraverso lo sguardo, aveva pensato.

Con uno sguardo si può fare tanto o niente: si può fare sentire una persona amata, desiderata, parlare a cuore aperto, oppure offendere, aggredire. Si chiudono gli occhi quando si rifiuta qualcosa o la si vuole ignorare o impedire di far parte della propria realtà, oppure quando ci si vuole proteggere.

Il fissarsi negli occhi rimane uno degli strumenti di comunicazione più primitivi, e se da una parte un contatto visivo diretto può, nella maggioranza dei casi, essere segno di affidabilità e benevolenza, non è sempre così. A volte, si possono usare gli occhi come arma, per ferire le persone, senza usare nemmeno una parola. È attraverso gli occhi che si tesse la prima vera connessione con l’altro. L’amore nasce con lo sguardo e con “amore” non si intende solo quello tra l’universo maschile e quello femminile, ma il sentimento in grado di unire due esseri viventi o un essere vivente alla parte più profonda di sé. Se guardare l’altro, sprofondare nel suo mondo è difficile, lasciarsi vedere, spalancare le proprie porte per lasciar entrare il proprio io lo è ancora di più. Dove si era perso il suo di sguardo? Perché non lo riconosceva? Perché non lo sentiva autentico? Ricordava ancora le parole di uno dei suoi autori preferiti, Alessandro Baricco in Oceano Mare:” Ann Deveirà lo guardò, ma d’uno sguardo per cui guardare già è una parola forte, sguardo meraviglioso che è vedere senza chiedersi nulla, vedere e basta, qualcosa come due cose che si toccano, gli occhi e l’immagine, uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più assoluto della mente, l’unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare, vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere, sola innocenza che potrebbe prevenire le ferite delle cose quando nulla di più che un meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il mondo tutto, ricevere, senza domande, perfino senza meraviglia, ricevere solo, ricevere, negli occhi, il mondo.

Ma da quale sguardo partire se non dal proprio?

Senza sé stessi non è possibile nessun cammino, senza sé stessi si resta trasparenti, non opachi ma trasparenti.

Trovare sé stessi dunque. Non domani, non il prossimo mese o il prossimo anno, da adesso.

Il viaggio è troppo complicato da cominciare. Da soli poi. E lì, in quel preciso momento, decise che avrebbe cercato, almeno all’inizio, l’aiuto di qualcuno. Non di una persona qualunque, ma di qualcuno con le competenze giuste, veramente capace di condurla nella tremenda e avvincente ricerca di sé stessi.

Correttamente, una volta per tutte.

Senza pregiudizi, remore, rigidità, chiusure, preclusioni.

Di questo si sarebbe occupata da quel giorno e nei giorni a venire.

Il sole comincia a tramontare e a lasciare un bagliore di luce dai toni rubini.

Un bagliore che fa intravedere una sottile, appena definita figura sullo sfondo.

Comincia a sentire il sangue pulsare prepotente nelle vene, il respiro questa volta è pieno, profondo. Inspira ed espira, inspira ed espira.

A partire da oggi, si diceva, sii una persona più semplice. Sii coraggiosa. Sii forte. Prova a dare spazio alla persona che abita dentro di te, in silenzio, impaurita. Comincia a lottare per te stessa.

Forse ogni cosa ha bisogno del suo tempo e a volte, semplicemente, i venti non soffiano a nostro favore e le vele non si issano nonostante il nostro impegno.

Forse le cose migliori non si programmano, succedono al momento opportuno ed è meglio non affrettare in nessun caso il loro corso. Se qualcosa deve succedere, accadrà, in caso contrario, non succederà.

È semplice. Almeno in teoria.

Forse bisogna smettere di controllare, di esigere da sé stessi, bisogna smettere di continuare a proseguire su un percorso che non si percepisce chiaramente, che non corrisponde pienamente e abbandonare le proprie ruggini. In fondo, il fatto che le cose possano essere diverse da come le si immaginava apre un grande ventaglio di scelte per iniziare a godere della vita.

Godere della vita significa sentire.

E questo spaventa, può far tremare i polsi.

Forse occorre imparare che ci sono certe cose che sfuggono al proprio dominio e che in numerose occasioni lasciare che tutto scorra ed accettare le circostanze, non può che essere l’opzione migliore. Forse l’unica percorribile.

Forse occorre ripulire a fondo la mente, fin negli angoli più nascosti, per cambiare prospettiva, cercando

tutto il positivo negli errori, investendo nella possibilità del cambiamento.

Forse bisogna imparare a non connettersi così pervicacemente con quelle parti di sé che provocano dolore, a non guardare con la lente di ingrandimento i pensieri che feriscono, le pietre su cui si inciampa, i graffi che non guariscono e contemplare la vita con pazienza, con calma.

Forse occorre superare la resistenza alla trasformazione, l’angoscia che potrebbe derivare dalla prospettiva di una evoluzione, la paura di andare verso ciò che non si conosce, di sbagliare, la convinzione di avere una sola scelta o di non averne nessuna ed afferrare caparbiamente l’incredibile occasione di guardarsi dentro, di scoprirsi.

Non significa che si debba diventare qualcun altro, ma al contrario liberare risorse rimaste impantanate, arroccate, avvolte nelle esperienze passate, nella parte più profonda di sé.

Forse occorre imparare ad avere compassione per sé stessi, ad assolversi, a rispettarsi, ad ascoltarsi, a mettere in comunicazione corpo e mente, a centrare le proprie emozioni.

Quando nella storia personale di qualcuno si insinua la sensazione dell’invisibilità, quando si cresce pensandosi non accettati, non visti, non amati, questo diventa la lente che, pur non volendo, ingrandisce e deforma tutte le relazioni. Nessuno è in grado di fare sparire d’incanto la ferita, a patto che non si decida di mettersi allo specchio, a fuoco, senza rabbia, avvilimento, frustrazione ma consegnandosi, semplicemente e tenacemente.

 

Il percorso è impervio, faticoso, in salita, tutto è ancora da fare. Ma non importa. Ciò che serve è cominciare, una volta per tutte, si era detta.

Cominciare a imparare a vivere, a volere vivere.

A non essere opachi, né trasparenti. Solo per sé stessi. Finalmente.