Racconto di Adele Múrino

(Seconda pubblicazione)

 

“Avvocato mi aiuti, la prego. Non credo di avere più la forza di resistere chiuso qui dentro. Sto vivendo un incubo. È terribile, mi aiuti almeno lei che è un essere umano.” Quegli occhi a mandorla, stretti a fessura erano privi di espressione mentre lo osservavano da dietro un paio di lenti spesse. Cheng si sentiva soffocare in quella stanzetta e faticava a restare calmo. Ormai tutte le sue certezze stavano scomparendo e lasciavano il posto ad un abisso di terrore nel quale stava precipitando. La sua fede incrollabile nella giustizia lo stava abbandonando. Lui che non aveva mai fatto del male in vita sua. Cheng ora sembrava un fantoccio appoggiato su una sedia con le braccia abbandonate lungo il corpo. L’avvocato si tolse gli occhiali, li pulì con un lembo del fazzoletto e li sistemò sul naso. Stava raccogliendo con calma le idee. L’unico rumore in quella stanza era quello dell’aria condizionata che filtrava da una grata nel muro. “Mi racconti cosa è successo dall’inizio e non tralasci nessun particolare.” La voce opaca dell’avvocato gli arrivò alle orecchie mentre era intento a fissare un punto imprecisato del tavolo davanti a lui. Sollevò la testa e una piccolissima luce gli brillò negli occhi stanchi. Il suo interlocutore non mutò l’espressione del viso. Cheng, piccolo commerciante della remota provincia di Xinjiang, si schiarì la voce e cominciò a parlare. “Era il sogno della mia vita venire in questa grande città di cui avevo tanto sentito parlare e avevo risparmiato quanto più potevo per potermelo permettere. Quando sono partito non avevo nessuno da salutare. Ero molto felice mentre guardavo dal finestrino dell’aereo tutti quei grattacieli di vetro in lontananza puntati verso il cielo. Quando sono sceso dall’aereo un autobus, privo di guidatore, ci ha trasportati al terminal dell’aeroporto. Rimasi meravigliato ma un passeggero mi spiegò che era normale in quella città. “La tecnologia che si sostituisce all’uomo – disse – la sua sarà una vacanza memorabile”. In quel momento non riuscivo neanche ad immaginare quello che mi sarebbe accaduto. Giunti al terminal, rimasi incantato a guardare quel veicolo che si allontanava silenzioso. Pensavo ai carretti del mio paese ancora trainati dai muli nelle strade polverose. Per un secondo fui punto da un pizzico di nostalgia che svanì non appena misi piede nell’aerostazione. Quel luogo era molto trafficato anche se incredibilmente silenzioso. La maggior parte erano passeggeri ma notai anche un gran numero di robot che zigzagavano da una parte all’altra di quella grande sala nell’indifferenza generale. Una di quelle macchine si fermò a guardarmi. Aveva delle vaghe sembianze umane e mi parlò con voce metallica. Mi aiutò a cercare un taxi e notai che, anche in quel caso, l’auto era priva di guidatore. Seduto sul sedile posteriore, parlai con un’assistente vocale alla quale diedi l’indirizzo del mio albergo. Giunsi davanti ad uno di quei grattacieli infiniti e fui ricevuto da robot umanoidi che si preoccuparono della mia sistemazione nella camera che avevo prenotato. Mi sentivo catapultato in un altro mondo e la cosa mi piaceva parecchio. Tutto funzionava a meraviglia e la sera me ne andai in giro per la città. Dappertutto era uno spettacolo di meraviglie tecnologiche. Ovunque incontravo turisti che, come me, avevano un’espressione di stupore stampata sul volto. Spesso incrociavo dei robot che si mescolavano a noi umani e, nonostante fossero un po’ dappertutto, ogni volta ne rimanevo colpito. Girovagai per quelle strade moderne e lontane mille secoli dal mio sperduto paesello. Arrivai così in una zona meno trafficata dove incontrai alcuni turisti. Venivano da un paese vicino al mio e mi consigliarono di visitare la parte vecchia della città. “Merita farsi un giro anche là” – dissero, indicandomi la zona. Fu così che mi avventurai fra stradine strette e meno affollate. Mi accorsi che lì la presenza dei robot era minore, ne incontravo uno ogni tanto. Camminai parecchio e, ad un certo punto, ebbi la sensazione di essermi perso. Le strade adesso erano deserte ed entrai in un negozio per chiedere informazioni. Al banco c’era una giovane ragazza che stava servendo dei clienti e così mi misi a gironzolare tra le corsie in cerca di qualche souvenir. All’improvviso sentii un grido che mi paralizzò. Mi voltai di scatto ma non vidi nessuno. Qualcuno fece sbattere la porta del negozio con violenza poi cadde il silenzio. Ritornai sui miei passi. La ragazza era scomparsa ma vidi per terra una scarpa da donna. Feci il giro dietro al bancone e la vidi distesa sul pavimento. Era stata sgozzata con un coltello e la cassa era aperta. Mentre ero chino su di lei, mi sentii afferrare le spalle da una morsa d’acciaio. Un robot-guardia era su di me e mi stava ammanettando, poi ci fu un lampo e non ricordo più niente.” Le ultime parole gli morirono in gola. L’avvocato dagli occhi a mandorla lo guardò fisso poi disse: “Sarà difficile spiegare, lei è in un brutto guaio.” Aveva appena finito di parlare quando la porta della stanza si aprì e un robot-guardia li invitò a seguirlo. L’aula delle udienze era solo di poco più grande di quella dove Cheng era stato rinchiuso. Una parete era quasi tutta ricoperta da un grande schermo luminoso dove campeggiava la scritta Tribunale del Popolo. Cheng si guardò intorno ma non vide nessuno. Sullo schermo comparve la figura di un robot dai tratti umani avvolto in un mantello nero. Una voce metallica fuori campo invitò Cheng a sedersi su una sedia, poi la stessa voce metallica disse: “Si alzi in piedi e dica il suo nome.” Cheng obbedì e pronunciò il suo nome con voce tremante. A quel punto la voce lesse il capo di imputazione e fece una breve sintesi dei fatti accaduti. Cheng guardava come ipnotizzato il giudice-robot. “Il cittadino Cheng viene da Kashgar, città che ci è ostile e dunque è un soggetto pericoloso” – disse il giudice-robot. “Ma sono nato lì…” – rispose Cheng. “Una volta ha manifestato contro il nostro regime” – continuò il giudice-robot. “Non mi sono mai occupato di politica…” – si affrettò a dire Cheng. “Vive da solo e nessuno può testimoniare a suo favore”. “Al mio paese ci sono persone che possono…” – rispose con un filo di voce Cheng. “Ha commesso l’omicidio a scopo di rapina. I soldi erano nelle sue tasche e le sue mani sporche di sangue” – lo interruppe il giudice-robot – “Il cittadino Cheng è colpevole” – sentenziò il giudice-robot – “E’ condannato all’oblio”. “No, non è giusto! I soldi che avevo addosso erano i miei risparmi” – si affrettò a dire Cheng con voce strozzata. Il suo avvocato lo guardò impassibile. Aveva quindici minuti per la sua arringa e sapeva che il giudice-robot Maat era un algoritmo infallibile, o almeno così credeva. Alle sue parole seguì un silenzio carico di tensione. Numeri e formule scorrevano veloci sul grande schermo luminoso. Maat elaborò i dati in meno di un minuto ma il risultato fu un errore giudiziario derivato dalla programmazione. Un errore a danno dell’umanità che aveva generato quell’intelligenza artificiale. Cheng fu accompagnato nella stanza dell’oblio e nessuno sentì più parlare di lui.