Racconto di Sabrina Boarino

(Prima pubblicazione)

 

I.

Altea trovava etereo camminare. Il ritmo del proprio respiro e dei battiti cardiaci, la temperatura sulla cute, i lunghi silenzi: erano gli esponenti con cui le piaceva conversare. Non amava misurarsi a lungo con gli altri esseri umani, ma con le grandi altezze non esitava nemmeno. Erano un privilegio sicuro. Verticale. Ma sicuro.

Quando raggiunse i 3.340 metri del Monte Mongioia, noto come Bric de Rubren, dormì la sua prima notte in un bivacco. Una proposta di Milo aggiunta inaspettatamente all’itinerario. L’unico vero compagno di escursioni non poteva essere che suo padre. Con lui camminare ripagava sempre. Condividevano la fatica coltivando i pensieri nella propria testa. Se proprio volevano spezzare il silenzio, preferivano farlo con frasi che simpaticamente li disconnettevano. Non grandi dialoghi, semplici scambi.

A metà del percorso il sentiero vacillava tra canali di terra e lastre di rocce, dove Altea ricercava con lo sguardo la pittura improntata per dar segno al percorso. La pendenza severa non intimoriva, ma stuzzicava. Lo sforzo muscolare annientava qualsiasi scomodo pensiero volontario che sembrava solo sfiorarla per poi lasciarla andare. Pensieri lievi. Agilità fisica. A ventitré anni stava assaporando il processo del cammino con rilevante soddisfazione personale. Un attraversamento lento affinché vi maturasse nel proprio tempo, evoluzione e rivoluzione.

Trionfato l’ultimo tratto, ancorò gli occhi ove la roccia era specchio di desolazione lunare. Volse lo sguardo e scorse Milo sull’uscio del Bivacco Boerio, pronto per masticare qualche energia zuccherina. Limitrofo vi era il Lago Mongioia e pochi metri sopra il suo naso, lei: la vetta.

II.

< Noi, così lontani dalla traccia umana e dalla civiltà, possiamo definirci abitanti dell’ignoto? > si rivolse curiosamente la figlia al padre.

< L’ignoto è ciò che non si conosce. L’alta montagna molti non la vivono per mancanza di volontà, di conoscenza o semplicemente per scelta. Noi amiamo attraversarla. Ogni vallata offre sempre nuove prospettive e sensazioni al camminatore. Come lui, la natura è sempre in movimento >.

< Come pensi che sia la differenza fra chi vive pienamente l’avventurarsi nell’ignoto e chi invece lo evita? >

< Penso che colui che la vive ad occhi velati, come anteprima di una direzione poco rassicurante, è dominato dalla paura di esplorarsi fuori dal quotidiano conosciuto. Poi c’è chi la vive ad occhi svelati, come una via che inequivocabilmente porta alla scoperta, che dissemina risposte utili alle proprie domande di ricerca e ricerca di direzione >.

< Tu cerchi direzione papà? >

< Cerco leggerezza, per me è sinonimo di avventura. Percorro una strada per trovarne le affinità >.

< Io son certa di sentire la montagna a me affine >.

< Mia piccola Altea, ti porto in montagna da quando hai fatto i tuoi primi passi. In questo luogo hai sempre avuto modo di mettere in gioco la tua forza fisica e la tua insaziabile curiosità. I suoni, gli odori, i colori. Sono stimoli che, ancor di più per una bambina, permettono di accendere il valore che la montagna ti sta offrendo e, nel tempo, di continuare a ricercarlo >.

Il padre inghiottì con gusto il secondo uovo sodo per continuare a narrare. < Per equilibrio umano si intende essere composti da affinità labili e stabili. È giusto avere certezze, ma l’importante è che la strada definita come certa vada considerata tale quando è propria, non di qualcun altro. Perché la provi sulla tua pelle. Ricorda: aprire gli occhi su qualcosa è sempre una faccenda personale >.

Il dialogo venne frammentato dal rumore dell’uscio del bivacco. Una  coppia di ragazzi sulla trentina, varcando la soglia, aveva mutato il loro  giovane corpo in anime stanche. Ora la traccia umana si stava ampliando in altitudine, ove oramai erano presenti sei persone, e l’abitacolo comprendeva dieci posti letto.

Superata la pausa prandiale e contrassegnati i rispettivi letti con i sacchi a pelo, i due erano pronti a elevarsi alla cima tanto attesa ormai vicina. Non esitarono ad unirsi a loro Jean Carl e Elena, coppia arrivata poco prima.

III.

Altea era rapida quanto attenta ai dettagli su cui poggiava gli scarponi. Afferrava le pietre peculiari per percepirne la sagoma. Avanzando le lasciava scivolare davanti a sé, indecisa su quale fosse quella giusta. In quindici minuti era arrivata alla punta, e poco dopo arrivò il resto della frotta.

Il vento correva conducendo lo sguardo chino sui rispettivi passi. Ma quando gli occhi erano pronti a sollevarsi, respiravano una frazione di un unico disegno congiunto di montagne: le cime vicine delineavano l’unione e le più lontane la approfondivano. Milo accostava quella congiunzione ai corpi dei visitatori che ne erano ormai divenuti parte viva. Indicò con perizia il nome del gigante di pietra, il Monviso, e di tanti altri apostoli rocciosi mirati dal suo arco visivo. Altea ascoltava e osservava imprimendo i due sensi al dipinto circostante, quando finalmente raccolse la pietra che avrebbe riconosciuto il successo giornaliero. Si mostrava lieta, inevitabilmente libera.

Inclinando oltre lo sguardo, si soffermò sulla simbolica croce della vetta. Lievemente scolpita dal vento ma non usurata dal tempo. Si avvicinò disponendosi ai piedi della struttura in ferro battuto. Ognuno aveva preso un piccolo tempo per sé, inapplicabile alle parole. Altea si mise a riflettere su cosa ricercasse un viaggiatore in quello spazio: Identità? Relazione? Storia? Tutti elementi che corrispondevano alla definizione di luogo dell’antropologo Marc Augé. Ma intanto riconsiderava le parole del padre – Aprire gli occhi su qualcosa è sempre una faccenda personale – e così amava ricordarsi che l’uomo era sempre spettatore dello spettacolo di sé stesso se un dato spazio gli consentiva di osservarsi davvero. Lei era certa di fotografare con gli occhi.

IV.

Per le nuvole era giunta l’ora del turno in corsia e i camminatori si reindirizzarono verso il caldo bivacco. La più giovane del gruppo, immune alla temperatura che diminuiva, si era fermata al margine del lago. Finalmente poteva fruire del gesto che sarebbe diventato l’istante sopraffino: rimuovere gli scarponi. Si abbandonò ad un sospiro, che in un baleno divenne un passo in punta di piedi verso l’acqua. Il nuovo elemento esibiva il suo manto al fresco fruscio della brezza, la quale ripiegava come un tappeto la superficie. In breve tempo la nuda pianta del piede stava toccando la roccia che la stava plasmando da ore in ogni direzione, in ogni sguardo, e, da quel momento, in ogni tocco. Si immerse fino alle ginocchia, stazionando attentamente. Osservava dapprima intorno, poi innalzava lo sguardo, finché tornava alle sue radici. Non percepiva più alcuna temperatura sulla cute, né alcun battito, né alcun respiro. Percepiva assenza. Percepiva interezza. Era una sagoma dentro la sua stessa composizione.

Sussultò quando giunsero parole frantumate dal vento accompagnate dalla mano di Milo che le porgeva un asciugamano.

< Molti sono convinti che, se si fermano a interrogarsi, non sono più in grado di ripartire. Nel corso di un’esperienza concedersi un tempo per indugiare nella propria riflessione significa consapevolizzare dove si è diretti. Tuttavia, fermarsi significa anche distrarsi dalla ricerca di una direzione, per giovare di ciò che ci sta plasmando. Significa anche

meravigliarsi. Questo lo sai fare molto bene >.

Sapeva frammentare con molta decisione quali momenti attraversare con sé e quali conviviali. Intrecciarli significava confonderli. Amava sentirsi affascinata dalla solitudine. Amava anche la collettività che le dava gioia. Amava i valori, i consigli. Amava anche allontanarli. Amava la sua ambivalenza ed esserne equilibrata al centro.

Altea non esitò a seguire il padre a piedi scalzi ma asciutti. La vascolarizzazione sanguigna rinvigoriva. Il parquet del bivacco destinava una sensazione di casa. Sentiva di possedere una buona intonazione, e intorno la collettività propagava favorevoli tonalità.

V.

Varcando l’ingresso, Altea suturava gli ultimi pensieri raccolti tra chi si concedeva quiete e chi discorreva a fil di voce. Gli ultimi giovani arrivati non esitarono ad aderire al saluto reciproco della ragazza. Fu allora che quest’ultima con rapido sguardo e in un nobile gesto indicò un remoto mazzo di carte e scompose il silenzio in un’intonazione collettiva di gradimento.

Giocarono ad un paio di partite prima che, come un’onda del domino, i commensali sequenziarono le proprie pietanze adeguando lo spazio ad una mensa per la cena.

Il tempo di accorpare ricche porzioni di polenta cremosa quando la luce incise i vetri annunciando un’ampia sequenza di colori all’orizzonte, ove il tramonto echeggiava. Ogni segmento di luce generava un’insolubile intonazione prima dell’inaspettata successiva. Uscirono tutti e ogni corpo volgeva verso la propria vibrazione. Il vento era divenuto alleato di Jean Carl, il cui drone telecomandato scolpiva immagini che colmavano gli occhi del burattinaio. Le dolci venature del cielo venivano trafitte dai cappelli aghiformi delle catene italofrancesi. L’orizzontalità pareva realmente affiliarsi con la verticalità. Milo e molti altri si disposero in fronte al prospetto annunciato più ampio, lungo una solida lastra rocciosa, ove il panorama si trasfigurava in opera pittorica. Il paesaggio individuale si stava unificando allo scenario circostante in un unico canto di rappresentazione.

VI.

Rientrando in tana, Milo dedicava intimità alla lettura. Altea si mise a frugare nello scaffale in cerca di un arnese, e scovò un pentolino. Chi soggiornava in bivacco aveva il piacere di lasciare traccia solidale con ciò che potesse essere d’utilità al prossimo. Lei lo ritraeva come un dono devoto, ma narrato da parole invisibili.

Scelse dallo zaino la tisana al bambù e ne strinse alcune foglie fino a farle scivolare nell’acqua bollente. Con il decotto andò a sdraiarsi di fianco al padre.

< La strada verso il successo personale è un percorso in salita dove vi è libertà di fermarsi, di osservare il contorno. Eppure il desiderio che si respira è l’ambizione della vetta. Il rilievo. L’istante. Solo dopo un amaro ritorno verso il basso capiamo che il tempo prezioso sale, poi scende. Salire e scendere. Il vero traguardo di una scelta è il movimento. Ricorda di tendere sempre all’attitudine della montagna: un continuo camminare verso l’alto senza esitare a guardarsi indietro. Dove inviti lo sguardo sul passo presente, e oltre. Lasci l’impronta, rendi nitida la tua direzione. E all’improvviso, ti accorgi di esser giunto alla tua altezza d’espressione >.

Rannicchiata nel sacco a pelo Altea non sentiva freddo. L’unica cosa che percepiva era la consapevolezza delle sue ambizioni e la soddisfazione per le direzioni raggiunte fino a quel momento.

Avrebbe riempito ogni vuoto con un passo verso l’alto, pur di sentire quello stato di equilibrio.

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