Racconto di Sara Spanò

(prima pubblicazione)

 

In tempi antichi, gli eremiti nel deserto perdevano la concentrazione intorno a mezzogiorno; la mia distrazione, invece, non conosce orari, soprattutto in assenza di pressanti scadenze e di fronte a compiti burocratici non particolarmente entusiasmanti.

Il mio sguardo distratto comincia così a vagare per la stanza, si spinge fuori, in terrazza, e infine inizia a navigare sul parquet di legno chiaro del salotto, innervato da venature e da nodosità del legno, più scure. L’effetto è piacevolmente dinamico; si direbbe quasi che una di quelle macchie tondeggianti, dall’altro lato della stanza, si stia muovendo.

Un momento: come sarebbe a dire, muovendo?

Guardo meglio. No, non è un’illusione ottica: qualcosa si sta muovendo davvero.

Contrariata, mi avvicino per guardare meglio, indovinando di cosa si possa trattare.

Non mi sbaglio.

Il piccolo intruso cammina lentamente, come se facesse fatica; questo non mi sorprende, considerata l’armatura a placche che lo riveste.

Sarà per qualche eco kafkiana, o per le proiezioni della mia svogliatezza, o forse per entrambe le cose, ma il piccolo viandante già non mi sembra più lo straniero impudente che passeggia indisturbato per il pavimento di casa mia; lo osservo con curiosità, anche se mi rendo conto che fissandolo così potrei metterlo a disagio.

Dubito però che potrei guardarlo in maniera diversa.

 

L’efficienza sistematica delle formiche, pronte a marciare silenziosamente verso qualsivoglia possibile bottino. 

L’astuzia dei calabroni – sette di quelli ammazzano un cavallo, diceva la nonna – capaci di costruire con riservatezza nidi calcificati e coriacei in luoghi insospettabili. 

L’avidità dei bombi, attratti dai fiorellini bianchi e profumati, che si aggrappavano alle alte e robuste piante di basilico, facendole oscillare come metronomi impazziti.

Pomeriggi interi trascorsi a perdermi in quel che accadeva in quelle aiuole, sotto quegli alberi. 

Tutto era smisurato e misterioso, per me, in quel giardino.

 

Continuo a osservare il mio piccolo ospite, chiedendomi da dove sia spuntato, e soprattutto, come comportarmi con lui.

 

Mille e più stratagemmi per tenere lontani gli insetti da casa, per scacciarli, ma quasi mai per ucciderli.

Si conviveva con loro; la casa era un tutt’uno con il giardino, respirava con esso, viveva grazie ad esso.

 

Inganno il piccolo camminatore, facendolo entrare con gentilezza in un barattolo di vetro vuoto. Poso il barattolo sul tavolo e mi risiedo davanti allo schermo del computer.

Una parola mi attraversa la mente: onisco.

Faccio mente locale per capire in quale lingua sto pensando: sì, è una parola italiana.

Onisco è proprio il suo nome, penso, mentre lo osservo esplorare lento, forse un po’ disorientato, il largo fondo del barattolo.

A dire il vero, non è un insetto, ma un crostaceo. Nome scientifico: Armadillidium vulgare. Il riferimento all’armadillo è dovuto alla simile strategia difensiva di appallottolarsi in forma sferica in situazioni di pericolo. Altro nome scientifico, più insolito, è Porcellio laevis.

Viene anche chiamato porcellino di Sant’Antonio, il che attira inevitabilmente la mia attenzione. Le storie di santi, il loro succedersi nella rassicurante ciclicità del tempo del calendario, mi hanno sempre affascinata.

 

“Santa Barbara!” invocava la nonna, facendosi il segno della croce ad ogni tuono scoppiato durante un temporale. E subito rimbombava una sonora bestemmia del nonno, che arricchiva a suo modo lo spettro delle possibili invocazioni di entità celesti. Non voleva che noi bambine crescessimo terrorizzate da fenomeni naturali o dai personaggi delle leggende che ci si raccontava intorno al fuoco, nel tempo – per noi inimmaginabile – anteriore alla comparsa della televisione.

 

Leggo che talvolta gli onischi vengono persino allevati come animali domestici, in appositi terrari. Al momento non la ritengo una strada praticabile, ma meglio essere preparati a parlarne in tedesco, nel caso in cui in futuro cambi idea e includa un onisco in famiglia. Si chiama Mauerassel, cioè “asinello del muro”. O del Muro, una delle ferite mai veramente risanate di questo Paese così complesso, che imparo ogni giorno a decifrare. L’immagine di onischi silenziosi e ostinati che, come somarelli carichi del proprio basto di chitina, si arrampicano sul Muro di Berlino e lo oltrepassano si materializza fugace. Chissà, forse è successo davvero.

 

Da piccola, sentivo spesso un aneddoto su un prozio che, emigrato temporaneamente in Germania, dichiarava con orgoglio di non parlare “germanese”. Il nonno lo prendeva in giro, ma a me sembrava solo di capire che non fosse stato accolto molto bene.

 

Nemmeno la mia accoglienza è stata impeccabile. Ho catturato e imprigionato quel piccolo viandante, prendendomi tutto il tempo necessario per identificarlo e immaginare la sua futura destinazione. Direi che l’ho tormentato abbastanza.

Esco in terrazza e lo libero, scuotendo leggermente il barattolo; lui si tramuta in una sferetta e rotola via.

 

La mamma non sorrideva quasi mai, quando eravamo a casa dai nonni. 

Quel giorno, però, sembrava contenta: me n’ero accorta dalla voce, quando mi aveva chiamata in veranda, per mostrarmi un piccolo insetto dalla corazza scura e lucida che camminava sul cemento.

“Guarda, adesso!” disse lei, divertita. Lo urtò col piede, con delicatezza. Sembrava una bambina come me, lei sempre così severa, in particolare in estate.

Il piccolo insetto si chiuse subito su sé stesso e lasciò il posto a una sferetta levigata, che mi fece pensare alla punta smussata di una grossa matita.

 

Ecco cos’era. Ne avevo già visto uno, di dimensioni e colori diversi, ma l’avevo dimenticato.

 

Purcidduzzu. Sì, la nonna lo chiamava così, nel suo dialetto. Porcellino.

Attraverso le lenti magiche e superstiziose con cui metteva a fuoco il mondo, lei seguiva una chiara tassonomia degli animali, credo in base alla loro carica demoniaca. Scacciava via i gatti come spiriti maligni – non ho mai capito bene che espressione apotropaica usasse -, e al tempo stesso chiamava l’onisco “purcidduzzu”, porcellino, in tono vezzeggiativo. Forse per lei era un portafortuna, come una coccinella. 

 

Non so se anche mia mamma abbia mai condiviso questa interpretazione superstiziosa, o se semplicemente la divertisse il modo dell’onisco di difendersi. Sono abbastanza convinta che non torturasse gli onischi come faceva con le mosche, quando era bambina, ma penso che glielo chiederò per sincerarmene.

Ormai viaggio solo intorno alla mia stanza, penso sorridendo con rassegnazione, ma dopo quella visita carica di ricordi, tutto mi appare stranamente più leggero e sopportabile.

Sarà per questo che ora ne esploro con più attenzione ogni angolo.