Racconto di Roberta Spagnoli

(Prima Pubblicazione)

 

Solo d’inverno Lentisco torna ad essere quello che è. Appena metto di nuovo le scarpe con i lacci riconosco il paese sotto i miei passi. Sarà il silenzio che scende tra i caruggi, sarà l’umidità scura che si stende sulle tegole, di fatto Lentisco torna a raccontarmi le sue storie solo in inverno.

Ormai ne ho ascoltate quasi cento, anche se ne ricordo meno della metà. Un po’ per via della memoria che viene e che va; un po’ perché tante faccende se le porta via l’ultima mareggiata di aprile. Poi torna l’estate e il mare sembra non abbia più niente da dire.

Per fortuna, alla fine le giornate tornano corte.

Sono le sirene che, di sera in sera, accompagnano il sole sempre più in basso sull’orizzonte. È una storia che si è sempre saputa in paese, anche se nessuno le ha mai avvistate tra le onde, nemmeno con il mare piatto dell’alba. Sirene o no, noi si è sempre andati avanti così, con le giornate ogni giorno un po’più corte, finché dal telegiornale si capiva che era arrivato il tempo di cambiare anche l’ora sugli orologi. E la nuova stagione ufficialmente arrivava.

Quest’anno, però è diverso. Quest’anno l’inverno se ne frega dell’ora solare. Le giornate continuano ad essere lunghissime e si smorzano dentro tramonti rossi che non lasciano speranza nemmeno di un goccio di pioggia. Ogni mattina apro le finestre e continuo a sentire questo maestrale dall’odore d’erba tagliata e di viole che non se ne vuole andare. E oramai è novembre.

Osservo Antonio, sudato dietro il bancone: è stufo di fare marocchini con il cacao per i milanesi in vacanza; so che gli manca la soddisfazione di un bel corto al vetro corretto da servire tra una briscola e l’altra ai vecchi come me, che d’estate si fanno invisibili giù alla marina.

Nessuno di noi del paese mette piede al bar da giugno in poi. Ogni pomeriggio ci rintaniamo nella verandina di Mario, finché la moglie non decide che è ora di cena e fa volare la tovaglia sopra le carte, così l’ultima mano va sempre a monte. Almeno Antonio ci fa stare al tavolo anche dopo la chiusura se c’è da finire la partita. Nel frattempo lava per terra e tira su le sedie, tranne le nostre, s’intende. Alla fine, il più delle volte, si siede anche lui con un bianchino per compagnia e, chiusa l’ultima mano, tiriamo giù la saracinesca tutti insieme, fino a domani.

Ma quest’anno non è così. Non torna la tranquillità, quella che tutti i giorni succede più o meno lo stesso e intanto tutto cambia di pochissimo, ma ogni giorno un po’.

Quest’anno l’estate fatta di granite, gelati e birrette ghiacciate sopravvive nell’indifferenza totale. Il paese, come instupidito, si adatta all’immobilità della calura e la canicola senza fine non fa spavento a nessuno. Anzi. Sembra che tutti abbiano ceduto all’idea che l’inverno non arriverà quest’anno. Forse non arriverà mai più.

Ogni mattina scendo al porto a odorare il mare: chissà che oggi non porti il sapore di alghe marcite e legna bruciata insieme a quel brivido che ti dice di darti da fare intorno alla barca per rendere utile la giornata e scaldare un po’ le mani secche di freddo.

Alla mia vorrei dare una pulita, una pittata alla chiglia, olio al motore. È ancora un bel gozzo, anche se ormai non lo uso quasi più. Mio figlio non si fida a lasciarmi andare da solo. Pensa che non ho più le forze. Ma che ne sa lui di quelli come me, che ci hanno passato la vita su questo molo. Se ne va ogni giorno a Genova con le scarpe di cuoio e te lo ritrovi la sera al circolo velico davanti a unoSpritz a parlare radar e GPS. E a me dice che è meglio se sto in casa, tranquillo. Non capisce che la mia casa è qui, su questa banchina di alghe secche e di marinai che sanno ancora leggere il cielo di notte. Ma stare seduto a pulire le reti in silenzio non mi basta. Mi annoio ad aspettare i lamenti masticati piano di chi torna con le ceste mezze vuote. La stessa commedia che giù al porto si recita da sempre, uguale ogni giorno.

Guardo l’orizzonte. Che fine avranno fatto le sirene?

Mi prende la voglia di andare. È una smania che sale dalle gambe, come un formicolio che passa sui nervi fino alla punta delle dita. Mi viene voglia di dare nafta ai pochi cavalli e piano piano oltrepassare la scogliera. So che là mi aspettano muggini e sardine, delfini, tonni, acciughe in banchi e occhiate. Nei richiami invisibili delle loro geometrie di nuoto sento che loro aspettano di tornare ad osservare il mio silenzio. Motore spento, barca alla deriva.

Ma se la stagione non cambia, non posso certo arrischiarmi. Adesso il mare è un percorso a ostacoli: motori e vele impazzite, musica, urla, risate nafta dappertutto e olio e plastica che galleggia. Non è ancora tempo di andare. I legni come il mio devono restare in secca; sulla banchina hanno la precedenza i gusci di plastica. Hanno la precedenza le ciabatte strascicate, l’olio solare, l’odore di Autan, che neanche le zanzare si decidono a morire e io non me ne faccio una ragione. Il cuore prende a battere a caso fuori dal petto, nelle orecchie, nelle vene del collo. Sento che il caldo mi taglia le gambe, a tratti il fiato si fa corto e la paura di morire, o la voglia, mi prende alla gola. L’ansia sale come la marea. Non si può fermare.

È l’età, dice il dottore, non ci fare caso, e aumenta la dose di gocce per la pressione nel ricettario. Ma io so che le medicine non servono. So che l’unica cosa giusta sarebbe prendere il largo e andare io stesso a stanare le sirene, una volta per tutte. So che si nascondono dentro le grotte di punta Piatta. Non ci vorrebbe molto a raggiungerle. Però la barca è in secca. Mi siedo al timone, lo faccio ruotare a vuoto nell’aria. Basterebbe solo un piccolo sforzo, la discesa al mare è vicina.

Intanto la notte cala lenta. Le barche in alaggio cigolano piano. Scricchiolano i legni, i remi, le nasse. Sibilano le bandiere le rande le gomene le ancore le reti. I suoni si accordano in un canto che va verso il mare, insieme a me. Punto alla scogliera. La mia lampara illumina l’orizzonte, oltre il faro. La barca è trascinata da un canto, fatto di pontili e palizzate che scrocchiano. È un canto leggero simile al pianto. Cantilena senza lacrime che mi trascina dentro a tutto il mare che ho attraversato, sulle rotte delle sarde, dei saraghi e dei delfini. Tra onde, schiume, correnti, mulinelli che spingono nel profondo, risacche che allontanano dalla riva. È un richiamo che mi conduce tra tempeste e bonacce che non sapevo di ricordare. È la voce della donna che chiama il mio nome dentro la risacca. È il suono del suo piede incerto sui sassi. Poi centinaia di passi sulla sabbia calda, l’urgenza della riva. Orme di gabbiano. Voli e tuffi e lunghi tratti in apnea.

Sembra una confusione di melodie senza capo né coda che ronza solo nella mia testa, invece piano piano diventa nenia che scivola tra le onde e arriva fino alla grotta, a svegliare le sirene intorpidite. Il suono del mondo che chiede aiuto le incanta e le trascina dietro di me, ipnotizzate da tanta vita che fa rumore: frastuono e musica insieme.

Le sirene adesso anticipano le onde, davanti al mio scafo lento. Le vedo a dare indicazioni all’ultimo bagliore sulla riga dell’orizzonte. Le sento, a richiamare con i loro gridi l’inverno sui tetti di Lentisco. Le seguo, nell’avanzata feroce sul pelo dell’acqua.

In un attimo la tramontana scura piomba sul mare e sulla costa, il vento gira a libeccio, il cielo si gonfia come una mongolfiera.

E io, accucciato sul fondo della chiglia, sento la barca farsi nido, poi culla tra le onde, e infine bara nell’ultimo tragitto verso il fondale che mi accoglie morbido.

Dalla riva giungono voci indistinte, richiami, sospiri e domande, ansie e pianti sommessi.

Sotto le prime gocce di pioggia, il paese riprende finalmente a raccontare.

-°-

https://www.mangialibri.com/non-e-vero-che-tutto-fa-brodo