Racconto di Carmelo Modica

(Quarta pubblicazione)

 

Ersilia e Erminia smisero di essere cugine il giorno in cui il mondo andò in frantumi e con lui i ricordi del carretto che roncolava sulle trazzere alzando zolle e vapori di terra. Al mulino, che vedeva impegnati i membri di una famiglia di imprenditori della farina, di tanto in tanto il padre di Ersilia, o lo zio considerando che i due fratelli si alternavano tra campi e mulini, ordinava a un contadino di portare le bambine a mare purché durante il tragitto

“nun si vutassi, Don Antò, e ‘i lassassi stari, masinnunca…”

Così Ersilia e Erminia si divertivano a guardarlo da dietro mentre Don Anto’ con una cannuccia di fieno masticata e rimasticata tra i denti truppettava col carretto verso la spiaggia sotto la canicola fendente di giugno. Erano circa dodici chilometri e lungo il tragitto le due cugine osservavano incuriosite le orecchie di Don Antò dalle quali facevano capolino ciuffi di peli neri e lunghi. Sembrava che avesse le sopracciglia pure lì. Le due screanzate ridacchiavano e, complici, si avvicinavano l’una all’altra per non farsi udire e tramavano qualche scherzo da sacrificargli in tempi di tampasìo. Don Antò, ignaro del teatro che si metteva in scena alle sue spalle, canticchiava un’arietta popolare ben attento a non degnare le due ragazzine di una sola taliata. Ogni tanto scatarrava e sembrava che il mondo si liberasse dalla guerra da come la cosa gli procurava soddisfazione. Gli si leggeva questo animo da un cenno lieve del capo, o da come sputava il fieno e ne recuperava un altro filo con la mano nodosa e nera, dotata di artigli che non avevano mai conosciuto una spuntatina. Erminia aveva quattro anni più della cugina. A guardarla si sarebbe detto che fosse la minore delle due ma solo perché la vita aveva voluto che fosse fragile e appuntita come uno di quegli animaletti di porcellana che aveva Ersilia su una bacheca sopra il letto.

Quel giorno che pose fine a tutto, dunque, la sirena dell’allarme lanciò l’ennesimo avvertimento: feriva le orecchie a stilettate e bruciava il cuore di paura.

Le bombe avevano raggiunto la città, silurando come strali di numi arrabbiati. Il fumo copriva tutto; si alzava da ogni anfratto della terra e dalle ferite inflitte agli edifici come se un mostro tentacolare sbuffasse continuamente di noia al castigo imposto agli uomini. Correva chiunque – animale o umano – preda della foga aliena di avanzare più che poteva per anticipare la sibilante discesa e perché questa non arrivasse a deflagrare prima che ciascuno non avesse raggiunto il proprio rifugio sotterraneo. Nello sguardo di un cane o di un uomo si leggeva la stessa disorientata rassegnazione.

Quel giorno erano morti tutti nel quartiere. Persino Lina Guerrieri, che era stata la maestra di entrambe le cugine e che una volta aveva rischiato la vita a causa della scarlattina; Orazio Wilson Faraci, il figlio che il capostipite dei Faraci – quelli del saponificio – aveva avuto da un’inglesina della Croce Rossa e che poi alla fine dovette riconoscere; il prete della Chiesa Grande di cui nessuno si preoccupò, poverino.

Riuscirono a entrare le due cugine che, di solito inseparabili, quel giorno venivano da parti diverse: non erano mai riuscite a dirsi da dove.

Fuori il mondo era scosso come un fazzoletto sporco. Ersilia fu più veloce. Smise di piangere quando Erminia caracollò dalle scale. Entrambe sporche, la faccia livida di lacrime e dal residuo di calcina, con la visione, che non le avrebbe più abbandonate, di una freccia e di una erre maiuscola che indicava il percorso al rifugio. Ersilia l’abbracciò forte e la tenne stretta a sé mentre Erminia singhiozzava. Poi, la furia incredula di un assetato, Erminia le si stringeva addosso urlando e tacendo e le volte in cui taceva mordeva un lembo del vestito della cugina, in prossimità del seno.  Entrambe si fecero mamme e donne dentro quello che fu, ancora una volta, il surrogato di un ventre. Erminia baciò per un attimo il collo di Ersilia con la foga della fame, odorandola ferinamente come fosse ossigeno che lava via ogni pulviscolo trattenuto nei polmoni, paralizzata dal terrore che il mondo fuori non decidesse di smettere di scoppiare. Ersilia, da par suo, ricambiava col pudore che si riserva all’ immaginetta di un santo e baciava la cugina sulla fronte ora toccandole le guance, ora asciugandole gli occhi con la bocca. Entrambe si guardarono finché le labbra non le costrinsero a unirsi perché più largo fosse il confine tra loro e la guerra, perché se era quello il momento in cui morire, che morissero abbandonate all’amore!

*   *   *

A settant’anni Ersilia continuava ad affittare camere alle vecchie della città. Era una specie di ospizio. Lei lo chiamava la casa per le ferie dei vecchi. Potevi starci un mese, una settimana o giusto il tempo che si quietasse l’ultimo litigio coi familiari più stretti. Non era poi così esosa la pigione.

Quel giorno sarebbe arrivata una nuova: Erminia Somerset. Oriunda della zona, le avevano detto. Aveva sposato un americano di cui portava una vedovanza schietta e felice.

Non sapeva augurarsi, Ersilia, che la storia venisse o non venisse fuori.

Un tè caldo tra le mani. L’indice non smetteva di battere sull’ansa del manico dalla quale si torceva un ricciolo dorato. Guardava dalla finestra attraverso una tenda bianca con balze in filet ecrù. Niente che già non conoscesse: di fronte, la moglie dell’avvocato Bonaccorso aveva steso la biancheria sempre all’insaputa della donna di servizio che – sosteneva la Bonaccorso – metteva male le mollette e poi anche la stiratura più capace o solerte non risolveva le minuscole pieghe; a piano terra, sul marciapiede, la pasticceria dei Fusco aveva cambiato le tovaglie ai tavoli sui quali troneggiavano finti ramoscelli di mandorlo in fiore.

“Quella nuova è in ritardo”.

La contessa Accardi, già folle di suo senza che ci si mettesse il figlio che la trattava come una poco di buono o i nipoti che la motteggiavano per il trucco pesante al quale dedicava lunghissime e lente ore davanti allo specchio, rimise il disco di Milva che neanche aveva smesso di girare fino alla fine.  Le parole di Nulla rimpiangerò riempivano il salotto come se la puntina tagliasse il solco nello stesso momento in cui il timbro della voce calcava sulle parole.

Ersilia guardò l’orologio.

“Non rimpiangerò certo la Piaf”, pensò considerato che la contessa aveva rimesso il disco per la quarta o la quinta volta.

“Però lo stereo sì”.

Erano già le tre e due minuti. Si rese conto che stava lì a guardare da un’ora. E non ricordava cosa aveva visto che non fosse inconsueto o straordinario. Dopotutto il viale era un viavai di gente già dalla mattina presto, anche perché era l’unica strada che portava dritto alla stazione. L’appuntamento era proprio alle 15 ma Ersilia preferì non commentare l’osservazione della contessa Accardi che non voleva mai perdere occasione di cercare aggaddo.

Bussarono.

Ersilia ebbe un tonfo al cuore. Sperava che tutto ritornasse come quella mattina prima che fosse sganciata l’ultima bomba, prima che non ci fossero stati più argomenti di cui parlare

…(le trazzere d’estate…

…Don Antò…

…il mare…

…il mulino)…,

prima che Erminia fosse inghiottita dal nulla in preda al delirio, prima ancora che Ersilia le avesse urlato dietro inseguendo la stessa fuga di lei e furiosa perché la vinse la viltà di non abbandonare il rifugio.

Erminia entrò. Zoppicava su una gamba. Un bastone con un pomello d’argento.

“Mi ha trovata Roger, svenuta” – disse.

Aveva due fedi all’anulare sinistro, un vago accento americano che allarga le lettere e pare che le produce dal naso.

“Bentornata, Erminia”.

Si abbracciarono come due vecchie rintronate, un po’ ingoffite da un passato che non poteva più tornare.

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