Racconto di Italo Falcier

(Prima pubblicazione)

 

Tutto cominciò per quelle mie due caratteristiche sulle quali non esercitavo alcun controllo: la statura – all’epoca ero più alto rispetto alla media dei miei coetanei – e la timidezza, che mi rendeva incapace a dire di no. E così mi trovai a sbattere per terra una palla a spicchi, contesa tra dieci giocatori tutti bramosi di conquistarne il possesso per lanciarla dentro a un anello di ferro attaccato in alto, tanto in alto.

Quella competizione a punti si chiamava pallacanestro ma per noi, patiti dei giganti dell’NBA, era solo “basket”. E non ci piaceva che lo chiamassero “gioco” – come se fosse roba per bambini – quello sport tosto, dove volavano certe gomitate quando si saltava in grappolo per catturare i rimbalzi, che dopo i lividi si esibivano come ferite di battaglia dura.

A ricreazione volavano gli sfottò tra noi e quegli altri che giocavano al calcio, contese infinite per stabilire quale delle due discipline fosse più maschia:

– Noi corriamo per novanta minuti, voi appena per quaranta.

– Ma il nostro è tempo di gioco effettivo, mentre voi calciate la palla lontano per riposarvi.

– Noi corriamo su un campo che è molto più grande del vostro.

– Ma se il gioco si svolge distante dalla vostra posizione voi ve ne state tranquilli a guardare, mentre noi corriamo continuamente avanti e indietro sempre tutti in attacco e tutti in difesa.

– Noi giochiamo sull’erba, che spesso è solo fango.

– Ma tu sai quanta pelle lasci per terra se cadi sull’asfalto del campetto dietro al patronato o sul cemento di quello delle scuole elementari?

All’inizio del campionato ci consegnarono la divisa, pantaloncini di raso e canotta bianca con i bordi rossi. Ci fu battaglia per la conquista dei numeri: chi voleva l’11 come il suo campione preferito; chi non mollava il 15 perché cucito sulla schiena di quell’idolo nero spesso fotografato sulla copertina della rivista patinata. A me rimase il 4, schifato da tutti i miei compagni per chissà quale sconosciuta antipatia.

La dotazione che ci venne fornita comprendeva anche un borsone rosso con il nome dello sponsor, un commerciante del posto che vendeva bibite all’ingrosso. Divisa e borsone li usavamo solo in occasione delle partite di campionato, mentre per gli allenamenti ci arrangiavamo con roba nostra, che la società sportiva era appena nata e di soldi ce n’erano appena per quel poco che ci era stato consegnato.

In una bancarella del mercato settimanale mia mamma mi provvide il necessario badando soprattutto al risparmio. Anche le scarpe me le comprò lei ma per tale importante acquisto le fornii una precisissima descrizione di quello che per me costituiva un oggetto del desiderio: rosse, di tela, alte, con la suola bianca percorsa da due righe nere e all’altezza delle caviglie un disco bianco con dentro una stella. Era impossibile sbagliare! E invece mi ritrovai con ai piedi una grossolana imitazione, un parente povero e sgraziato del mio grande sogno. «Sono quasi uguali e costano meno» si difese mia madre aggredita dalla mia villana delusione.

Facevo la prima media e conobbi il basket per decisione del professore di ginnastica, che era anche allenatore nel club locale. Non ricordo se mi chiese «Ti interessa?» So che quando me lo propose io capii «Devi venire!»

Le prime regole che imparai furono che non si cammina con la palla in mano e che la squadra è composta da cinque giocatori che stanno in campo e altri cinque che stanno in panchina. Io giocavo in questo secondo ruolo. In difesa un po’ me la cavavo ma nell’attacco ero incerto, senza aggressività. Ci ha pensato il tempo a farmi capire, senza tanta gentilezza, che quello è il mio carattere, il mio modo per affrontare le partite della vita.

Quella domenica si giocava in trasferta nel paese vicino. Un leggero nevischio misto a pioggia velava la superficie in cemento rosso di quel campetto all’aperto. Seguivo le azioni raggomitolato sulla panchina che avevamo spostato sotto un albero per trovare un poco di riparo.

Arrivati al secondo tempo stavamo perdendo senza speranza. Il ritmo di gioco rendeva evidente che ormai tutti aspettavano solo che trascorressero quegli ultimi minuti per potersi finalmente riparare in spogliatoio.

«Scaldati Italo».

Ci misi qualche secondo a realizzare che quell’Italo ero io e che dovevo prepararmi ad entrare in campo.

Come un giocattolo con la molla caricato al massimo, mi buttai nell’azione con grinta eccessiva rispetto alle sorti della partita ed all’inerzia che ormai rallentava entrambe le squadre. Io mi davo da fare come se a me toccasse difendere l’onore della sconfitta, anche se in realtà riuscivo solo a procurare un po’ di scompiglio e non solo nello schieramento rivale.

Tanto feci che catturai una palla nemica intercettandola lungo la traiettoria di un passaggio. D’impulso mi lanciai verso il canestro avversario. Correvo con gli occhi incollati alla sfera per la paura di farmela sfuggire con un palleggio maldestro. Giravo a scatti la testa all’indietro per controllare i miei inseguitori; che in realtà non c’erano, poiché nessuno si era preso la briga di fermare il mio contropiede inutile all’esito della partita ormai allo scadere.

“Il mio primo canestro” pensavo eccitato, già assaporando il piacere della personale esultanza alla quale mi sarei lasciato andare.

“Il mio primo canestro” pensavo entrando nell’area dei tre secondi e inquadrando con lo sguardo il tabellone. Così caricai i muscoli delle gambe per elevarmi in sospensione e indirizzare il tiro, ma scivolai sulla patina di nevischio e finii lungo per terra mentre la palla sghignazzando rotolava fuori campo.