Racconto di Mariapia Pasini
(Seconda pubblicazione)
Il tempo di sedermi davanti al computer e divento una calamita. Trascorrono poche decine di minuti e lui, come attirato, si materializza alle mie spalle. Appoggia la mano sullo schienale e mi chiede, con tono mieloso, cosa stia scrivendo. E anche se la mano non si appoggia mai sulla spalla, è come se lo facesse. La sua presenza mi mette a disagio, mi irrigidisco, perché so che non si tratta di un gesto affettuoso. Conosco bene il suo comportamento, quell’avvicinamento lento senza rumore. Quando non è a lavoro accade a momenti alterni, durante la giornata. Cerca di sorprendermi, insospettito da non so cosa. Persino mentre sto preparando un sugo mi arriva alle spalle: come potrei tradirlo con un pomodoro e una cipolla? Le lacrime che mi scorrono sulle guance, a causa dell’acido solfidrico, irritante per gli occhi, sono da lui interpretate come la conseguenza di un’emozione dovuta a un qualche ricordo… amoroso.
La mia vita è diventata un incubo. Godo di un po’ di libertà solo quando lui è in ufficio.
A causa della pandemia non ho più un impiego: la riduzione del fatturato della ditta ha comportato il licenziamento della metà dei dipendenti.
Il mitico Coronavirus ha impattato sulla mia vita anche in un altro modo, forse anche più terribile del licenziamento stesso. Mio marito ha potuto lavorare da casa ed è stato in questa occasione che io ho cominciato ad avere difficoltà respiratorie, interpretate come broncospasmo da infezione virale. I medici hanno provato ogni farmaco possibile ma io non respiravo. Non si trattava di qualcosa che mi bloccava il respiro da dentro, ma di una compressione da fuori, come una sciarpa troppo stretta, che mi avvolgeva. E quella sciarpa era lui.
I dottori si sono impegnati per aiutarmi, la diagnosi, però, la conoscevo solo io. Quando la sua ditta ha riaperto, la mia dispnea è sparita.
Sto cercando un lavoro ed è per questo che sto spesso davanti allo schermo del computer, qualsiasi offerta che mi permetta di lasciare casa, anche solo per poche ore. Non è l’unico motivo che mi spinge al pc: sto scrivendo un libro, che parla di me, della mia vita accanto a un uomo geloso. Si tratta di un consiglio avuto dalla psicologa del Centro antiviolenza, a cui mi sono rivolta in una delle mie rare uscite. “Scrivi” mi disse “parla di te, di quello che vivi, che senti, che soffri, ti aiuterà. E quando penserai di non farcela più, smetti di scrivere e vieni da noi”. E così faccio, da mesi, tengo aperte due pagine sullo schermo: una dell’Agenzia per l’impiego e l’altra del mio racconto, per cui, in un nano secondo, passo dall’una all’altra con un clic.
Ho affinato l’udito sul quasi impercettibile scricchiolio che emette una trave del parquet alle mie spalle: anche se lui calza sempre morbide pantofole, lo scricchiolio di quella trave è il mio segnale di pericolo.
A volte ho paura.
E se, concentrata sul mio scritto, non lo sentissi arrivare? Che succederebbe?
Devo stare più attenta.
Cercherò di scollare un poco la doga del parquet, tanto da accentuarne lo scricchiolio.
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