Articolo di Francesca Coppola

 

Ho paura dei ragni. Le ragnatele poi mi annichiliscono. Non tollero la polvere stantia.

Montagne di incuranza lì ad attirare eserciti di insetti.

Le cose immobili, l’energia rappresa, i mancati tentativi.

 

Qualche volta il pollice sembra staccarsi e andare, partire. Si muove fiaccamente su di un angolo, piccole, invisibili particelle si alzano nell’aria confusa ed inizi a starnutire: è l’incuria il vero male del mondo. E non parlo di fiori e semi. Letteralmente non avere cura di. Si smette all’improvviso di guardarsi, di notarsi, di fare attenzione al cambio di orecchini, alla nuova maglietta, il taglio di capelli, quel tatuaggio in più. Si smette di toccarsi, di baciarsi, di accarezzarsi. Nessuna piuma sulla pelle né mani a premere, fortemente volere come fosse pezzo vitale, terra di conquista, terra promessa. Ci si ferma un attimo prima e si passa oltre. Ci si ferma e muore un ricordo. Ci si ferma e non ce ne saranno altri.

Resta il vaso a terra, poco distante dai fiori. Resta il marmo rotto. I gatti fanno le fusa ai divani, i cani scodinzolano alle finestre, chi mai resterà? Si segue quella mollica che non sfama. Si fotografano panorami di cui non cogliamo la vera bellezza. Si fa zapping continuo della vita. Distratti e bistrattati, distanti e affollati. Soli, con le mani in tasca, abbiamo imparato ad arrotolare bene i sogni. Molte volte è la paura di soffrire, l’altra di dolere. Troppe volte invece è semplicemente indifferenza, trovarsi nella stessa stanza, a respirare la medesima aria su piani diversi. Saranno queste luci sparate che levano i difetti, ne abbiamo un bisogno spaventoso. Scorticare l’unghia, accarezzare i nei, parlarci. Dovremmo imparare dai ricci a prendere le distanze giuste per non offenderci.

Ed invece siamo sacchi di farina, tenuti in posti ben asciutti solo fino a quando siamo pieni. Gli altri si avvicinano con una bustina, un contenitore qualsiasi, a volte pure un oggetto di fortuna e prelevano un poco di te. E allora fin quando sei pieno, sei totalmente visibile e in maniera bizzarra, ti senti importante e fai finta di non capire il momento esatto in cui servi e non possono fare a meno di te. Altre volte invece non si tratta di necessità, sono solo troppo pigri per allungare il passo, alzare lo sguardo e fare caso ad un altro pacco di farina. In fondo hai la materia prima, il contenuto fondamentale per ogni azione o voglia. E tu, tu quando avverti i passi versi di te, arrossisci di brutto e di sicuro, qualche battito perde un colpo. E si incaglia la saliva, il senso, la vista. Quando qualcuno punta un distributore di farina è tutta una questione di attenzione. Sentirsi le mani dentro, scavare spazi e scendere progressivamente il livello. Le allusioni, a volte subìte mentre raddrizzano la posizione un poco inclinata del sacco. I passi svelti ed eccitati di chi riesce a rubarne una parte. Nessuno si accorge della farina pregiata, in fondo è farina bianca del tutto simile a quella comune, fine ma non finissima. Al panettiere verranno bei panini, non per forza più buoni degli altri e, comunque, nessuno mai potrà stabilirlo. Il pizzaiolo sottovaluterà l’uso combinato di ottima acqua e giusta quantità di sale. La pasticcera si affiderà totalmente alla bilancia come unico metro di giudizio. Non di rado, durante questa operazione farina scenderà giù per i lati, sul banco, a terra. Finirà per essere spazzata, rinchiusa in un altro sacco assai più variegato. Non avrà più un nome proprio, si parlerà di identità scaduta, con fuga di piccole parti che mal si uniranno ad un altro tutto, senza indirizzo preciso o magari ammassate in un fosso. La vita è un riflesso. Dovremmo comprare sempre quelle scarpe che ci piacciono, quelle che poi non potremo utilizzare per più di un evento, quelle troppo alte che risaltano. Se ci accontentassimo di scarpe comode, quelle che si abbinano un po’ a tutto, perderemmo l’unicità. Una scarpa non può essere confusa con una pantofola, una scarpa deve fare quello che deve fare.

La verità è che siamo scomparsi prima a noi stessi, non utilizziamo più i benefici dell’immaginazione. Saremo ancora capaci di inventare geografie senza il bisogno ossessionato di geometrie? Che i luoghi vengano trovati o ritrovati per intuito, per estremo desiderio o per nostalgia. Che certe sensazioni siano riscoperte senza coordinate, lasciando sprofondare chi si approfitta degli altri per risalire. E non cercare acqua nel deserto ma imparare ad amare il deserto, senza acqua.