Articolo di Francesca Coppola

 

 

Le parole non sono importanti. Le parole sono solo codici da tradurre. Niente a che fare con la messa in pratica, l’esempio, il sacrificio. Ci si siede sulle parole e si attende che attorno poi nascano fiori e saltino rane; che attraversino il fosso, che il profilo dei papaveri doni colore al resto. Per molti le parole sono un trono da esibire, impugnare, rammentare. E non solo per qualcuno che le scrive ma anche per la maggioranza che ne legge, per non parlare di chi crede di realizzarle attraverso il suono.  Parole che restano su un comodino come il manifesto di una pubblicità destinata all’oblio. Parole che diventano pulpito, infilano note.

Scrivere è solo l’inizio. L’apertura di noi verso noi e poi al mondo. Scrivere per comprendere e confrontare. Scrivere per fingere di essere o esserlo davvero. Si scrive per concepire, coinvolgere, emozionarsi, dimettersi. Si scrive per attaccare, pacificarsi per poi sporcarsi. E ancora per trovare la morte prima di rivelarsi.

Se è vero che si dovrebbe discutere unicamente delle cose di cui si può parlare, sulle altre però non si dovrebbe tacere. Come si giunge allo scontro? Quando la comprensione si allontana e le risposte sono domande e le richieste non vedono punti finiti. Qui tutto è il contrario di tutto. Prospettive distanti nel conflitto che fa ribollire il sangue nelle tempie. Le teorie sono solo teorie, la pratica troppo difficile da contemplare nelle scelte. Ci si rivolta l’uno contro l’altro come gatti feriti e si erge in grandezza finta. Allora si alza la colonna vertebrale solo per mostrare di averla più risoluta: è la gara a chi sta peggio. Tutte le ferite celate o reo confesse vengono portate su una linea retta in ogni guerra verbale. Le parole allora diventano spade, coltelli, mine esplosive, rasoi, colpi pensati o impulsivi ma comunque sempre ben assestati. Soffriamo e feriamo, colpiamo per sentire. Questi graffi o contusioni sono lì a ricordarci quanto siamo fragili. È solo materia. E si può morire per una banale ferita non guarita. Buttiamo il sale, sperando che il dolore velocizzi la rimarginazione, perché attraverso la stessa sofferenza tutte le lacune si colmino di rabbia, frustrazione, delusione. Muovendoci, non sentiamo più dilagare il vuoto e tutto sembra apparentemente placarsi. Intanto andiamo alla ricerca della molla che possa farci saltare. Azzanniamo ancora e ancora solo perché sputando sembriamo star meglio. Ma spingere una porta, non vuol dire girare la chiave. Si sa che non si aprirà bene.

Lasciarsi avvicinare dalle parole, saperle soffrire. Capire in ogni fase la solitudine. Provare, annettere e saper fronteggiare lo sforzo. A cosa servono le parole?  La natura umana è viscida. Ti trova, ti osserva, ti sfrutta. La cosa peggiore è finire per credere ad un certo punto di non essere soli, poi restare soli. Essere importanti, ricevere attenzioni, sentirsi parte di un tutto. La delusione, lo smarrimento, la colpa, il tradimento. Ecco il sacrificio delle parole che si lanciano da un terrazzo e sperano di non stramazzare al suolo. La pena di tradurle in suoni scritti eppure restare incomprese. Il tormento di intenderle in bocche sbagliate. La tribolazione di sapere che non sono un dono. La condanna dei sensi, la passione indefinibile. Lo sforzo di allineare sé stessi e sapere che nessuna riga può realmente contenere una ferita. Il destino in una penna, la possibilità di domande infinite come la prospettiva delle risposte.

Cosa resterà delle parole? In fondo sono suppellettili della stessa carne che rifiutano veli, almeno sulla carta.