Di Carlo Giarletta

(18 aprile 2021)

 

Marocco – primi anni 70

Ricordo di una notte insonne in un albergo di Tinerhir. Uscii sul balcone della mia stanza e mi trovai immerso in un’atmosfera stupenda. Il vento caldo mi avvolgeva con una tenerezza che sapeva di sensualità e le stelle, numerosissime, sembravano dover precipitare giù dal cielo con tutta la forza del loro fascino. Delle luci in lontananza testimoniavano che gente, con ogni probabilità povera e nomade, contendeva il possesso di spazi vitali ai margini dell’impossibile immensità del Sahara. La voce del vicino deserto, verosimilmente, intimoriva col suo assordante silenzio anche i cani selvatici, i quali si abbandonavano ad un latrare rabbioso forse per scacciare un’ignota presenza incombente.

Notai la figura di un vecchio che emanava serenità, mentre sedeva su un marciapiede ed era intento a scrivere per dei poveri e malati. I suoi gesti e la sua persona avevano qualcosa di ieratico ed i derelitti, che chiedevano aiuto alla sua saggezza, ruotavano per un po’nell’orbita del suo mondo mistico e si sentivano protetti. Era una scena di vita terrena che rappresentava, idealmente, un volo di anime in comunione.

L’adolescente venne scoperta in flagrante dall’occhio della mia cinepresa, mentre stava spiando me e gli altri turisti. In quella zona interna del paese, arida, lontana dai centri abitati più grandi, la gente dei villaggi non voleva assolutamente farsi fotografare; soltanto la curiosità di una giovanissima indigena di fronte all’insolito, a quello che per lei risultava esotico ed attraente aveva avuto il sopravvento sugli ammonimenti alla riservatezza. La ragazza, sentendosi guardata, cercò di nascondersi. Prima di sparire dietro un muro, mise in mostra con uno splendido sorriso il bianco dei denti che per evidente contrasto risaltava particolarmente sul bruno della carnagione. Nel suo modo di essere, manifestato pure con quel gesto significativo, traboccavano senza dubbio una giocosità ed un’istintiva spontaneità legate ad una certa purezza, non ancora contaminate dalla civiltà occidentale, che avevano del meraviglioso, dell’incredibile.

In pullman potei assistere per qualche minuto ad una piccola tempesta di sabbia. I vetri dell’automezzo vennero fasciati completamente da uno schermo di polvere giallo chiara; seduto vicino all’autista, gustai ancor più la bellezza quasi violenta di quella scena che aveva del surreale. Quando infine riapparvero la strada ed il paesaggio circostante, sembrò che anche il tempo fosse ritornato a scorrere con ritmo regolare.

Una domenica, visitando una kasbah, vidi come la miseria lavorava pure in un giorno di festa. Infatti essa spiegava continuamente la vita alla popolazione e, in particolare, ai ragazzini che avevano già l’età per sentirne il peso. Le facce, gli odori, le voci e tutto l’ambiente erano condizionati da questo insegnamento; soltanto il volto più intelligente di qualche bambino portava segni di speranza per un domani migliore. Provai un senso di colpa, perché mi venne in mente che appartenevo ad una società che svolge e realizza sé stessa tante volte nel disinteresse per i problemi umani, soprattutto per quelli di chi sopravvive in angoli di mondo confortati quasi esclusivamente dalla misericordia del sole.