Articolo di Alessio Torelli

 

Ci sono dei momenti, probabilmente rari, in cui ognuno di noi si è sicuramente soffermato a pensare a quale sia oramai, ai nostri tempi, il senso della celebrazione delle festività. Quant’è difficile riuscire a trovare la chiave per far capire ad un ragazzo del 2023 che probabilmente tanti anni fa durante le feste c’era tutto un mondo ed un senso diverso, non solo religioso e spirituale, ma in ogni caso un senso di frugalità, un senso di “reale” che oggi non abbiamo. Probabilmente ognuno crede a torto o a ragione che la propria generazione sia stata migliore di quelle successive e che il Natale e le festività in generale avevano un senso a dispetto di oggi, in cui tutto sembra ormai incentrato solo sul consumo, sull’apparenza, su regali sempre più costosi, su bambini sempre più incontentabili, il tutto condito dall’immancabile gara di like sui social. È banale dirlo, se ne parla sul web, sui giornali, nei salotti televisivi, ma la sensazione è che nessuno abbia idea di come fare a cambiare un minimo questo stato di cose e probabilmente non ne abbiamo realmente voglia, perché troppo faticoso anche solo rifletterci seriamente. Sembra un fenomeno talmente grande ed irreversibile, della scomparsa della spiritualità a favore del consumo, del piacere della famiglia a favore dell’affannosa caccia all’ultimo regalo che qualsiasi discorso in merito risulta uno stucchevole passatismo che non porta nessuna nuova argomentazione. Vale la pena però rispolverare un intellettuale che in realtà di polvere ne ha poca, proprio perché nonostante se ne sia andato diversi decenni fa risulta dolorosamente attuale. Pier Paolo Pasolini, il 4 gennaio 1969 scriveva su “Tempo” l’articolo “Festività e consumismo”. Abbiamo parlato in un precedente articolo del 2022 della visione del poeta in merito all’omologazione dilagante che lo stesso denunciava, il cambiamento dei mezzi di produzione, la società del consumo, l’essere umano ormai svuotato di valori ed esistente soltanto in quanto consumatore. Pasolini afferma di rendersi ben conto che anche durante la sua gioventù le feste rappresentavano una sfida della Produzione a Dio, ma il mondo contadino rappresentava ancora un minimo di resistenza. “Il capitalismo non aveva ancora “coperto” del tutto il mondo contadino, da cui derivava il suo moralismo, del resto, e su cui fondava del resto, ancora, il suo ricatto: Dio, Patria, Famiglia. Tale ricatto era possibile perché corrispondeva, negativamente, come cinismo a una realtà: la realtà del mondo religioso sopravvivente.”

Il nuovo capitalismo, secondo Pasolini, non aveva più bisogno di quel ricatto, di quei valori veri o presunti, perché l’uomo nuovo è semplicemente quello funzionale alla civiltà dei consumi che si stava affermando. Quand’ero bambino, racconta, durante il fascismo, anche allora la Chiesa era asservita al Capitale, ma custodiva ancora dei valori all’interno del mondo contadino. Attualmente invece il capitalismo non ha bisogno dell’asservimento della Chiesa, ne potrebbe fare tranquillamente a meno. La Chiesa dovrebbe a questo punto distinguere le proprie festività dal Consumo, dovrebbe distinguere “l’ostia dai panettoni”. In realtà, dice il poeta, il Natale è una festa pagana, ma allora torni pagana. Si tolga il velo e la Chiesa se ne distingua. Nei suoi connotati capitalistici, Il Natale è comunque una guerra.

“Appunto, in queste occasioni festive: in cui la festa è l’interruzione di un’abitudine allo sfruttamento, all’alienazione, al codice, alla falsa idea di sé: tutte cose che nascono dal famoso lavoro, che è rimasto quello cui inneggiavano i cartelli nei campi di concentramento di Hitler. Da tale interruzione, nasce una falsa libertà, in cui esplode un arcaico istinto di affermazione. E ci si afferma, aggressivamente, attraverso una feroce concorrenza, facendo nel modo più medio le cose più medie. Sì, è una nota terribile al Natale, che ho fatto. E non ho nulla da concedere a niente. Niente bonarietà. Niente addolcimenti. Le cose stanno così. È inutile nasconderlo, anche poco.”

Parole volutamente dure, nette, che risultano violente rispetto all’immaginario collettivo del focolare natalizio, dei selfie con i maglioni in coordinato che vanno ad infrangersi sul “lavoro rende liberi” citato dal poeta. Eppure i 22,8 miliardi di euro spesi per il Natale 2023 (dati Codacons) da un Paese in perenne crisi economica e le parole di Papa Francesco all’Angelus che esorta a non confondere il Natale con il consumismo, forse un minimo di riflessione dovrebbero stimolarla.

È sgradevole, come risultava spesso lo stesso Pasolini, scomodare le nostre coscienze durante questi giorni di festa, significherebbe andare ad aprire quelle porte sull’apparenza, sull’ipocrisia delle nostre vite, potrebbe far cadere molte certezze. E allora avanti, anno dopo anno, senza fare i conti con quello che il poeta già affermava più di mezzo secolo fa, senza chiederci mai che cosa siamo diventati.