Di Vera Casoni

2 maggio 2021

 

 

 

A Pennabilli, in provincia di Rimini, c’è un luogo speciale. Un piccolo museo di sapori per farci toccare il passato” secondo le parole di Tonino Guerra. Proprio lui, il grande artista romagnolo, lo idea e lo progetta. Ho pensato fosse necessario, per non dimenticare il gusto di quelle piante che stavano addosso alle vecchie case contadine”. E nel 1990 il parco prende vita, nel centro storico del borgo. In mezzo alle mille altre attrattive per il visitatore, c’è l’orto dei frutti dimenticati. Raccoglie piante della flora spontanea appenninica, le conserva e le preserva dall’oblio. Questi alberi da frutto erano presenti nei vecchi orti dei casolari. Oggi, però, non sono quasi più coltivati e si vanno estinguendo.

Allontanati dalla memoria. Il giardino di Pennabilli è un tuffo nei films di Fellini e gli alberi (più di 70 specie diverse) diventano stupiti “amarcord”.

È veramente deliziosa la BUTIRRA. Sì, ho avuto il privilegio di gustare questa pera ben tornita.

Il termine “butirra” deriva dal latino butyrum cioè burroso.

È il botanico italiano G. Gallesio (1772-1839) a darle questo nome. La sua polpa è un vero butirro, si scioglie in bocca in una pasta morbidissima”.La descrive come la regina delle pere perché coltivata in tutta Europa e diffusa nei giardini signorili.

“Non vi è pomologo che non la ami”.

Un’allegra canzone-filastrocca di De André (1978), la Zirichiltagia (Lucertolaio), in dialetto sardo e in un travolgente ritmo country, parla di due fratelli pastori che litigano per una questione di eredità. E, fin dai primi versi: Ti sei tenuto il ruscello e la casa / e tutto quello che c’era dentro / le pere butirro e l’orto coltivato …”

Trafigge anche il cuore più duro la bellezza del SORBO, così stracarico di frutti.

Negli anni passati era piantato nei giardini, perché elegante e ornamentale.

Le sorbe assomigliano a piccole mele. Un tempo venivano raccolte ancora acerbe e fatte maturare nei solai sulla paglia. Di qui il detto: “col tempo e con la paglia maturano le sorbe”, ci vuole, insomma, pazienza per vedere i risultati.

Spesso le bacche venivano ridotte a farina e la polvere era poi mescolata col frumento per fare il pane.

Le sorbe sono particolarmente appetite dalla piccola avifauna migratoria.

Dante stesso le cita come frutto aspro: “ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi / si disconvien fruttare al dolce fico” (Inferno XY, vv. 65-66).

Questi piccoli pomi sono potenti alleati della salute. Ricchi di acido malico, favoriscono l’attività del fegato. Il frutto entra in una tipica esclamazione bolognese: sorbole! o meglio “sciorbole!”, che sta a sottolineare, in chi la pronuncia, un sentimento di pura sorpresa.

Ecco là un Matusalemme che accende la fantasia di rosso fuoco. È il plurisecolare CORBEZZOLO. Un albero sempreverde, chiamato anche Albatro, diffuso in buona parte dell’Italia.

Se fermentate, le corbezzole danno vino e distillati assai digestivi.

Corbezzoli è un eufemismo per “corbelli” (marroni, per intenderci). L’espressione: Corbezzoli! indica meraviglia. Pascoli dedica al corbezzolo un’ode (1906):“O tu che […] metti i fiori quando ogni altro al suolo getta le foglie”“O verde albero italico”.

A buon diritto rappresenta il nostro Paese. A partire dal Risorgimento, viene indicato come simbolo dell’unità d’Italia. In autunno presenta, infatti, sullo stesso ramo, foglie verdi, fiori bianchi e frutti rossi.

Dal nome greco del corbezzolo (Kòmaros) hanno origine alcuni nomi dialettali di frutti, come cocomeri (Marche) e cacumbari (Calabria).

È di etimologia greca anche il Monte Conero, ricco di arbusti di corbezzoli e alle cui pendici sorge Ancona. Non a caso nello stemma della città è rappresentato un ramoscello di corbezzolo.

Ancora oggi, il 28 ottobre, nel giorno dei santi Simone e Giuda, gli anconetani vanno nei boschi, si cibano dei frutti e si incoronano dei rami della pianta, perpetuando, così, un rito bacchico. Accarezza gli occhi e sorprende l’anima il GIUGGIOLO. Albero alto 6-7 metri che proviene dall’Asia.

Le giuggiole ricordano delle grosse olive dalla colorazione rosso-marrone e dal sapore acidulo. Queste drupe sono anche chiamate dattero cinese.

Possono essere consumate fresche o entrare in bevande alcooliche e liquorose.

A Genova esiste una piazzetta intitolata proprio alla giuggiola. Si trova nell’antico quartiere del Carmine, tra caruggi e panni stesi. Qui svetta un alto giuggiolo che accarezza i muri di un’abitazione.

Amedeo Pescio (1880-1952) nel suo libro “I nomi delle strade di Genova” decanta questo frutto: Quanti dogi hanno avuto una viuzza che ne conservasse il loro nome? Quanti ammiragli, quanti Vivaldi, Fregosa, Usodimare?”

E poi c’è lei, la “giuggiola dolciastra che aligna spessissimo nelle tasche dei nostri scolaretti coi pennini, la trottola e le biglie”.

Ad Arquà Petrarca, sui colli Euganei, si tiene quest’anno ad ottobre la 40esima edizione della fiera della giuggiola, eletta frutto simbolo del territorio.

La manifestazione corrisponde al periodo di raccolta dei frutti. Qui puoi trovare: giuggiole piccoline, giganti, ma anche biscotti alle giuggiole e un liquore che fa andare veramente “in brodo di giuggiole”, cioè in solluchero.

Giuggiolone è il nome di questa bevanda alcoolica, ma è anche un aggettivo che indica una persona un po’ ingenua e sciocca. Così come “è proprio una giuggiola” sta a significare una cosa da nulla, un’inezia. * – * – *

Meritano almeno un cenno: l’azzeruolo, l’annurca, il corniolo, il cotogno che, insieme ad altri, tornano protagonisti a fine settembre (22-23 settembre) proprio a Pennabilli. Durante la due giorni, hanno luogo mostre, laboratori e mercati. Si possono cogliere sapori e profumi di meravigliose biodiversità dimenticate, ma ritrovate e salvate. Seppur temporaneamente.

Anche a Casola Val Senio (RA), il 13-14 ottobre e il 20-21 ott., si tiene la sagra dei frutti perduti.

Tanti colori e tanti valori di una volta che stanno, purtroppo, scomparendo.

Attualmente il consumatore è più attratto dalla frutta esotica, condizionato forse dalle mode culinarie del momento. La frutta di oggi è sicuramente più grande, più colorata, senza ammaccature. Ma è anche più gustosa? No. Non lo credo!

Io sono dalla parte dei brutti, ma buoni. In Francia li chiamano Les Gueules Cassées, cioè i brutti ceffi.

Frutti e ortaggi con difetti estetici, fuori calibro e danneggiati. Privi delle caratteristiche necessarie per essere commerciabili (troppo facilmente deperibili) ma buoni in sostanza. Bisognerebbe, però, sfatare quell’equazione così radicata nel consumatore medio che: “il bello è uguale a buono”.