Racconto di Lorenzo Barbieri

(Settima pubblicazione)

 

Il porto di Amsterdam brulicava di gente in un’affollata giornata di fine primavera. Una folla di persone era in attesa di imbarcarsi. Intere famiglie con facce tristi, si aggiravano sul molo a passi lenti.  I venditori ambulanti davano la voce per le loro mercanzie. I marinai si davano un gran da fare per caricare a bordo le provviste necessarie al lungo viaggio. La traversata sarebbe durata almeno tre mesi. Le compagnie di navigazione assicuravano i loro passeggeri, potevano viaggiare tranquilli perché erano stati presi in considerazione ogni tipo di eventuali imprevisti e che le provviste imbarcate erano più che sufficienti. Fra quelli che erano in attesa di partire c’erano anche molti detenuti, si riconoscevano per le catene che portavano alle mani e ai piedi, guardati a vista dai soldati con i fucili. Erano stati condannati a morte, ma per benevolenza del re era stata offerta loro la possibilità di scontare la condanna nei campi di lavoro nelle nuove terre d’oltremare. Mescolati alla folla agivano indisturbati anche ladri e borsaioli che approfittando della confusione lavoravano le proprie vittime con destrezza. Portavano via ai poveretti, tutti i risparmi conservati per affrontare la nuova vita in quel mondo sconosciuto e lontano.

Io mi chiamo Jan e sono insieme al mio precettore che deve accompagnarmi. Mia madre mi aveva vestito con un abito ricavato da un vecchio vestito del nonno adattato alle mie misure. Ormai sono cresciuto e non vi era quasi differenza di taglia con il nonno. Mio padre è un predicatore protestante ed è molto rigido con tutti, compresi i figli. Ci ha cresciuti nel timore assoluto di Dio. Io sono sempre stato un giovane insofferente ai canoni di educazione paterna e avevo più volte progettato di imbarcarmi per le Americhe. Lo spirito ribelle mi aveva spesso messo in difficoltà, ma ero sempre riuscito a cavarmela. Ora, finalmente, ero sulla banchina pronto a partire. Avevo racimolato i soldi del viaggio con vari lavoretti fatti nel mio quartiere. I miei genitori, alla fine, si erano arresi e avevano acconsentito al viaggio purché fossi accompagnato dal precettore. Avevano un indirizzo in Louisiana, dove ad attendermi c’era uno zio, un fratello di mio padre emigrato già da tempo in quelle terre. Il vascello che doveva ospitare me e il precettore si chiamava “Adventure”, un nome appropriato alla sua situazione. Dopo ore d’attesa le operazioni di carico merce erano finite e il capitano stava per dare l’ordine di mollare gli ormeggi. Tutti quelli che dovevano imbarcarsi si affrettarono a salire a bordo. Le donne piangevano e stringevano i bambini vicino alle loro gonne. Dopo i rituali d’addio fra abbracci e lacrime, lasciai i miei parenti sul molo e corsi sulla passerella seguito dai passi lenti del vecchio che mi accompagnava. Sciolte le cime, le poche vele issate spinsero lontano dalla banchina la grande nave; in poco tempo era già con la prua dritta verso l’ignoto.

Mi ero ormai stabilito in Louisiana da più di un anno, la vita nel nuovo mondo non era poi tanto diversa da quella di casa, la differenza era nel numero di schiavi che avevamo a disposizione nella tenuta dello zio. Lui era l’esatto contrario del fratello, mio padre, tanto rigido, morigerato e religioso uno, quanto ubriacone, dissipatore e violento l’altro. Trattava i suoi schiavi con la frusta e spesso avevo dovuto assistere a delle impiccagioni di uomini di colore per delle assurde banalità. La mia educazione purista e religiosa mi faceva odiare quel genere di comportamento disumano. Rimpiangevo il viaggio voluto a tutti i costi. Ogni giorno scrivevo lettere a mia madre e alla ragazza che avevo lasciato in Olanda. Prima della partenza avevo promesso che, appena possibile, l’avrei chiamata per raggiungermi. Alla luce di quello che stavo vivendo, adesso non ero più tanto sicuro di fare la cosa giusta. Le scrivevo per conoscere la sua decisione e se, magari, fosse il caso che tornassi io per parlarne. Inviare lettere dall’altra parte del mondo non era una faccenda facile, ci volevano tre mesi per andare e altrettanti per tornare. Una lettera impiegava sei mesi prima di poter ricevere una risposta. Sapevo bene delle difficoltà, ma imperterrito continuavo a scrivere tutti i giorni e inviavo le lettere con ogni nave in partenza verso l’Europa. Dopo alcuni mesi, le risposte cominciarono ad arrivare.

Mia madre raccontava la vita di casa, non mancando di ringraziare il Signore per la benevolenza che dimostrava verso il figlio lontano. La fidanzata era indecisa se intraprendere anche lei il lungo viaggio.  Pur leggendo quanto le narravo con dovizia di particolari, proprio per invogliarla, non era proprio attratta dalla prospettiva di vivere in un ambiente piuttosto ostile e con persone così crudeli. Per i primi mesi le lettere arrivavano di continuo poi, improvvisamente, cessarono di arrivare.

Io continuavo a scrivere lettere ogni giorno, ma dall’altra parte non arrivò più niente. Passarono mesi e anni, ma per quante domande facessi ai marinai che arrivavano dal vecchio continente, non riuscii a sapere nulla. In patria le cose andavano come sempre, non c’era nessuna guerra o epidemia, niente che potesse giustificare il silenzio da parte della famiglia. Dopo alcuni anni di speranza mi arresi, ero cresciuto e avevo trovato lavoro, tramite lo zio, come sorvegliante in una piantagione di cotone. Avevo il compito di tenere sotto controllo gli schiavi di colore addetti al lavoro nei campi. Durante quel periodo conobbi la mia futura moglie. La figlia di un ricco proprietario di piantagioni, dopo poco, infatti ci sposammo. Passarono altri anni. Deluso e insoddisfatto di quella vita, prima di diventare cinico come gli altri, decisi di tornare in patria. Ero un uomo adulto e maturo, benestante, potevo essere felice, ma non avevo del tutto dimenticato la famiglia. Tornai nella vecchia abitazione e non trovai nessuno. La casa era in rovina, dei familiari nessuna traccia. Feci ulteriori ricerche e, alla fine, la verità venne a galla. La famiglia aveva dovuto traslocare e aveva comunicato la notizia in una lettera al figlio lontano, solo che la nave, che trasportava quella lettera, era stata assalita dai pirati e affondata. Le successive lettere che avevo scritto non erano mai state recapitate. Mia madre, ormai anziana, non ricevendo più notizie si era ammalata per lo sconforto ed era morta in breve tempo. Mio  padre, rigido nel suo comportamento intransigente, convinto che la colpa di tutto fosse mia, mi dimenticò del tutto. Morì, due anni dopo, solo e ubriaco in una taverna.

Un fascio di lettere ingiallite e mai lette, era tutto quello che restava della mia famiglia. Le trovai in cantina, dentro una sacca da marinaio. Ricordavo bene quella borsa, di quando la prendevo per andare a scuola piena di libri.  La portai con me, quando m’imbarcai di nuovo su una nave che partiva per le terre d’oltre oceano.

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https://www.lafeltrinelli.it/ginevra-vita-spezzata-libro-lorenzo-barbieri/e/9791220388085

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