Racconto di Guido Cremonese

 

 

Ugo aspettava con impazienza. Quel giorno Alina tardava a venire.

Perché?

Ogni tanto guardava attraverso la persiana; ma nessuno passava per la via in quell’ora ancor calda, nel mese di agosto.

Il giovanotto, oltre all’impazienza dei primi convegni, provava una certa noia.

Quella camera mobiliata con ingresso libero era l’ambiente più stupido e più volgare che potesse immaginarsi.

Dopo aver fatto per tre o quattro volte il giro della stanza, guardando le vecchie stampe ingiallite sospese alla parete, si fermò davanti ad una scrivania; fece qualche sgorbio su un foglio di carta; poi si avvicinò alla porta delle scale.

Questa volta qualcuno saliva: un passo leggero, un lieve fruscìo di seta… Il suo cuore fu in sussulto. Ugo tirò pian piano la molla della serratura e lasciò la porta socchiusa.

Un momento dopo una mano inguantata spingeva il battente, e… Alina era fra le sue braccia.

Bellissima donna! Le curve del suo corpo alto, opulento, erano come un ondeggiamento flessuoso di messi sotto la brezza di maggio.

Fisionomia bella, ardita; ma di una bellezza un po’ fredda, un po’ perfida, che lasciava immaginare, oltre un egoismo assoluto, una certa sensualità, la cui espressione si completava con le linee statuarie del corpo.

Come mai una donna così splendida, di alto ceto – lo si vedeva – esperta della vita e dell’amore, si abbandonava tanto imprudentemente ad un’avventura con un uomo troppo giovane perché potesse essere sicuro e discreto?

Ugo, infatti, ancor giovanissimo, alle prime armi in amore, era un trastullo per lei. Lo amava? È difficile poter dire se Alina amasse qualcuno. Amava sé stessa… amava l’avventura, il pericolo, l’ignoto, quando questi tre fascini avevano per fine il piacere.

Ugo, poi, la desiderava perché era bella, e perché il possesso di una simile donna soddisfaceva il suo amor proprio.

— Perché hai tardato tanto?

— Ho tardato perché… temevo di essere seguita da qualcuno… ed ho fatto un lungo giro.

In fondo, aveva più che una simpatia per questo giovane ancor quasi adolescente: ma, soprattutto, egli la divertiva. Era sicura di lui: lo conosceva abbastanza serio. E, purché le male lingue tacessero, purché suo marito ignorasse, era disposta a concedergli amore… finché se ne sarebbe annotata.

Egli la trasse vicino a sé, su un divano e, baciandole ora una mano ora il viso, le mormorò:

— Mi ami?

— Tanto…

V’era nel tono di Alina una così completa distrazione, che chiunque non fosse stato un novizio, si sarebbe inquietato per quel «tanto», che non pareva se non una parola detta per formalità… come il sì di molte coppie, davanti al sindaco.

— Anch’io, sai, t’amo tanto, tanto…

Alina lo guardò con una certa severità e gli chiese:

— Posso esser sempre sicura di te?

— Alina! – protestò egli.

— Della tua serietà? Non farai nessun pettegolezzo… nessuna chiacchiera…?

— Alina! Tu mi offendi! Tu non sai quanto ti amo! Perché quest’ingiustizia che non merito? Chiedimi qualunque prova d’amore e te la darò.

— Saresti capace di far qualunque cosa per me?

— Qualunque. Del resto, se io ti comprometterò, ti autorizzo fin d’ora ad uccidermi.

— Bum! Si fa presto a dirlo! Ucciderti! Dopo la compromissione, anche il delitto! Starei fresca!

— No: – rispose egli con impeto giovanile, correndo alla scrivania – eccoti la mia dichiarazione.

E scrisse e, poi, lesse ad alta voce:

«Dichiaro di essermi tolto volontariamente la vita, perché sofferente di intollerabile neurastenia.»

— Bambino! – balbettò Alina che gli s’era avvicinata, accarezzandogli il capo – Son cose da romanzi, queste.

— No, no! Niente, bambino! È come ti dico! Ed abbracciandola repentinamente:

— Non ti basta neppur questo? Ma allora, che vuoi?

— Voglio te… – rispose a mezza voce la donna, già vinta dalla fiamma amorosa.

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Quando Alina uscì da quella camera, le sue vesti erano un po’ gualcite, la sua pettinatura un po’ disfatta: ma il colore acceso della fisionomia le restituiva mille volte, nella bellezza, ciò che aveva perduto nell’acconciatura.

Alcuni colpi discreti furono bussati all’uscio di comunicazione fra la camera ed il resto dell’appartamento. Non ottenendo risposta, una vecchia signora, dall’apparenza mezzo rispettabile, entrò, seguita da un signore elegante, sulla quarantina.

— Se ne sono andati… – mormorò.

Poi, quasi per quetare uno scrupolo di coscienza, aggiunse:

— Del resto, io non ho detto nulla. Lei sapeva tutto… e mi pare che non voglia far male a… quelle persone. Alla fin fine, se si contenta di visitare le camere… quando sono andati via… è padrone. Ognuno ha i suoi gusti…

Ed abbozzò un sorrisetto ironico.

— Signora Marta: lei mi conosce bene, come conosce Alina…

— Io non so nulla! Non so nulla! – protestò la vecchia – So che viene qui una donna, ma non la conosco.

— Tanto meglio. Allora siamo intesi. Mi lasci solo e non ne parliamo più.

La signora Marta stava per allontanarsi, secondo le convenzioni stabilite con Carlo Ruperti; ma un’ultima curiosità la trattenne.

— Senta… ne ho visto, al mondo, di stranezze… perché sono vecchia; ma una stranezza come la sua…

— Bah! Che vuol farci? – replicò seccamente Carlo.

— No: dicevo… Se crede di trovar qui qualche oggetto dimenticato… delle prove… si sbaglia.

— Non ho bisogno di oggetti o di prove. Per che farne? Se volessi avvisare il marito, non avrei bisogno di prove: gli darei l’indirizzo.

— Per carità! Ci mancherebbe!

— Vede bene che non sono in cerca di prove.

— Ma allora?…

— Faccio degli studi psicologici. Mi lasci.

— Pisco…. Sta bene. Arrivederla, signor Ruperti.

— Non mi chiami per nome: io, qui, non devo esser conosciuto da nessuno. Discrezione per discrezione! La saluto.

La vecchia uscì un po’ mortificata ed un po’ irritata.

Lo sapeva benissimo che quella donna era Alina! Lo sapeva benissimo che quell’uomo, Ruperti, era stato l’amante di lei per molto tempo, e che la perfida aveva fatto scegliere dal nuovo amante – chissà perché – proprio quella camera, ove per tanto tempo, prima con frequenza, poi sempre più di rado, era andata ai convegni datile da quell’uomo, che, appassionato, geloso, era rimasto molte volte in attesa inutile, perché la sua bella si era annoiata di lui.

Molte cose le sapeva, perché era solita guardare dalla toppa, origliare – come faceva in questo momento – quando altre cure non glielo impedivano.

Sapeva che, dopo una scena terribile di gelosia, avvenuta in quella camera, Lina se n’era andata per sempre, piena di un rivoltante disprezzo pel suo amante. Aveva udito Ruperti minacciarla di non lasciarle più pace, di perseguitarla ovunque…, ma poi i mesi erano passati, la chiave le era stata resa, e Ruperti non s’era fatto più vivo con lei fino al giorno del primo convegno di Alina con Ugo.

Raccomandazioni, preghiere, a nulla erano valse: Ruperti, anzitutto, pagava splendidamente i servigi che gli si rendevano: eppoi aveva promesso di contentarsi di osservare, di non dir nulla al marito tradito, di lasciar tranquilla la coppia… e Ruperti aveva incominciato gli studi psicologici.

— Che cosa vuol cavarne, quel matto? – pensava – Basta! Contento lui… Io, al suo posto, schiatterei! Del resto, bisogna che lo lasci fare a suo modo; altrimenti chissà che cosa mi fa succedere.

Ma quello che la signora Marta ignorava, e che Ruperti s’era ben guardato dal lasciarle sospettare, era che egli possedeva una seconda chiave della porta esterna…

Ruperti volse uno sguardo intorno alla camera; esaminò i mobili; guardò dietro i cuscini, sotto il letto, per vedere se qualche oggetto fosse caduto ad Alina.

Era nei patti che egli, prima della signora Marta, aveva il diritto di osservare ogni cosa.

Nulla! Quantunque l’altro fosse giovanissimo, quantunque Alina fosse un tipo di sensuale in cui l’esaltazione addormentava la prudenza, nulla rimaneva mai che potesse comprometterli.

Che cosa voleva Ruperti?

Forse egli stesso non avrebbe saputo dirlo.

Innamoratissimo, geloso, sensualmente geloso, provava un piacere, un acre bisogno di tormentarsi, nell’andare sulle tracce dell’amore lascivo di Alina. Quelle ricerche erano tante spine nella sua carne; ma, mentre lo rendevano più folle di amore e di rabbia, gli davano mille volte di più il bisogno di sapere ancora, di ancor vedere.

Eppoi… se la famosa prova fosse venuta? … Se avesse potuto presentarla ad Alina e costringerla, lì, sotto gli occhi dell’altro, ad esser sua?

Ad esser sua in un modo vergognoso per lei, in un modo violento, umiliante… A possederla per disprezzo!

Ah, quali terribili vendette è capace di immaginare un temperamento geloso! Torquemada diventa un fanciullo, a quella scuola! Non gli strazi del corpo, che son poca cosa: le torture che immagina il geloso sono gli strazi più atroci dell’anima, gli oltraggi più inauditi, il disprezzo più feroce.

Quando gli occhi di Ruperti si fermarono sulla scrivania, egli diede un balzo.

Impadronirsi della carta, chiuderla come l’oggetto più prezioso nel portafogli, uscire, furono cosa di un attimo.

Quando la signora Marta, dopo un’ora, entrò, portando un lume, cercò invano le tracce che avevano interessato il suo strano ex-inquilino.

— Pisco… gici… – mormorava.

Due sere dopo, in un salone dell’alta società, Ruperti spiava il momento di poter rivolgere ad Alina una parola senza essere disturbato.

La bellissima creatura era abbagliante, sotto le mille lampade, in quell’acconciatura che lasciava vedere tante, tante bellezze.

Gli occhi di Ruperti luccicavano stranamente a quella vista di un tesoro tante volte posseduto, e che aveva un così tremendo potere sui suoi sensi esaltati.

Seminascosto nel vano di una finestra, serio, accigliato, non vedeva che lei.

Finalmente gli passò vicina, sola; e tutto il suo essere ebbe uno slancio verso la donna.

— Alina… ho da parlarvi.

— Anch’io… per dirvi che il modo insistente, con cui mi guardate, mi annoia e mi compromette.

— Alina… io so tutto.

— Tutto? Che cosa?

— I tuoi convegni con Ugo Fortini, da Marta, nella nostra camera.

— Ah! sapete tutto? Ebbene? A me piace il pericolo. Che volete?

— Voglio – rispose egli, fremente – che tu sii mia, là, sotto gli occhi di colui!

— Ah! – rispose Alina con un piccolo scroscio di risa – È inutile, mio caro. Io non vi voglio male; ma… non vi voglio più. Mi avete annoiato… Siete noioso, sapete, con la vostra gelosia! Basta, basta! Rimaniamo buoni amici, e non se ne parli più! Così si fa quando si tratta con gentiluomini.

— Bella roba!

— Mi disprezzate e…

— Bada, Alina…

— Delle minacce? È quello che mi piace! Fate ciò che volete. Addio, Ruperti!

E, con un graziosissimo sorriso, gli volse rapidamente le spalle e si allontanò.

— Siamo spiati! Siamo scoperti! – mormorò Alina, il giorno dopo, entrando nella camera ove Ugo l’aspettava.

— Scoperti? – chiese egli, sussultando – E da chi?

— Da uno… da un tale… che mi perseguita da tanto tempo.

— Ti fa la corte?

— Purtroppo!

Ugo provò una puntura di gelosia. Fissandola in fondo agli occhi, le domandò:

— Ma non c’è stato nulla… mai nulla che abbia potuto incoraggiarlo?

— Tu sei il mio solo, il mio unico amore! Te lo giuro!

Ugo era demoralizzato. Il pensiero del pericolo, il timore che forse qualcuno, in quel momento, era sulle loro tracce, paralizzava i suoi slanci amorosi. Alina se ne accorse subito. – Bambino! Di che ti preoccupi?

— Penso… Ma sono proprio il tuo unico amore? – chiese, vergognoso del timore mostrato, cercando di allontanare il pensiero di lei dalle parole di poc’anzi.

— L’unico. Non preoccuparti, andiamo!

— Non mi preoccupo.

— Ma sì! Non te ne accorgi… Sei freddo… Non sei più lo stesso.

Egli si scosse.

— Hai ragione. Ma è per te che mi preoccupo. Non vorrei che qualche malvagio… Almeno dimmi chi è.

— Ci mancherebbe! Voi uomini fate così presto ad accendervi, a compromettervi! No, no! Piuttosto, facciamo una cosa: cerca un’altra camera… lontano di qui.

Egli accondiscese con un moto del capo.

— Ma non mi baci? Non sono più io, oggi?

— Scusami…

Combinarono il modo di comunicarsi il nuovo indirizzo; poi, cessato lo sgomento di Ugo, un dolce oblio li prese e si abbandonarono ai molli vaneggiamenti della loro passione.

Ad un tratto balzarono con un simultaneo sussulto violento. Qualcuno aveva introdotto una chiave nella serratura… un uomo era entrato, e chiudeva la porta dietro di sé.

Il terrore, la rabbia, la vergogna paralizzarono in essi i movimenti e la parola.

— Buongiorno, Alina! – esclamò la voce ironica e fredda di Ruperti – Che elegante costume… Che dolce abbandono! …

Ugo era allibito: Alina ricuperò tosto la consueta freddezza di animo e, affrontandolo, gli gridò:

— Che volete? Entrate in casa d’altri come un ladro?

— Che cosa voglio? Lo sai, Alina, che cosa voglio. Voglio te… E ti voglio qui, sotto gli occhi del tuo pallido amante. Tu sei mia, perché ti voglio; e sarai mia per tutta la vita.

Alina rispose con una risata. Ugo, inesperto, credette mostrare dello spirito, rispondendo con un’infelice posa tragica:

— Signore… mi renderete ragione! Riceverete i miei testimoni…

— Ma che testimoni, imbecille! Il testimonio sarete voi, stavolta! Animo, via, giovinotto! Sedetevi su quel divano, e non fiatate. Alina, qui! E con un gesto rapido, un gesto convulso da ossessionato, afferrò Alina per un braccio e la spinse violentemente verso il letto.

— Vigliacco! No! Prima morta che tua! Vile!

Ugo, stavolta, si sentì forte. La vista di una donna, maltrattata da un violento, destò in lui quella risolutezza di azione che le parole non avevano destato. Con gesto rapido trasse di tasca un temperino dalla lunga lama, e si gettò in direzione di Ruperti, pronto a colpirlo. Questi rapidamente balzò di fianco e pose la scrivania fra sé e l’avversario.

— Giovanotto… butta a terra quel coltello!

— Vigliacco!

— Bada…

E Ruperti trasse di tasca una minuscola rivoltella, che puntò in direzione di Ugo.

— A terra quel coltello! … Io sono calmo, lo vedi… ma non tollero gli scherzi. Quando ordino una cosa, voglio che la si faccia. Giù quel coltello!

— No, vigliacco!

Alina, immobile pel terrore, supplicò:

— Ugo… butta via quel coltello e vattene… Lo conosco, quel vigliacco! È capace di tutto!

— Non me ne andrò! Non ti lascerò sola! …

— Io mi libererò… Vattene! …

Ma il giovanotto aveva dato un balzo in avanti, cercando di colpire l’avversario; e Ruperti, lasciando partire un colpo, l’aveva fulminato.

Annientata dallo spavento, Alina non fiatava… La scena era stata rapida come un baleno; il colpo della piccola arma poteva scambiarsi col rumore di un legno spezzato di netto, tanto era stato debole. Nessuno sarebbe accorso…

Mentre Alina, ridivenendo padrona di sé, stava per urlare, per chiamar gente, per denunziare l’assassino, Ruperti le metteva una mano sulla bocca.

Inconsciamente la donna, inferocita, lo morse.

— Vipera! – balbettò egli, imbavagliandola con un cuscino – Vestiti subito… Presto! Tuo marito sa tutto e sarà qui a momenti… Rimango io, qui, e rispondo di tutto. Tu non sai nulla.

Avvilita, come la bestia domata dallo scudiscio, con lo sguardo smarrito, non perdendo di vista il domatore, Alina si vestì rapidamente, sommariamente.

— Adesso vattene!

Umile, guardandolo sempre, soggiogata dall’occhio di lui, si avvicinò alla porta e l’aperse con mano tremante.

— E domani… devi essere mia!

Alina non rispose. Si allontanò pian piano, timorosa, annientata, vinta.

Ruperti trasse di tasca il foglietto firmato da Ugo, e glielo pose accanto, sulla scrivania; gli depose vicino la rivoltella; intascò il temperino; diede un po’ di assetto alla camera ed uscì.

Il giorno dopo, le gazzette stampavano una nota di cronaca, di cui il riassunto è press’a poco questo:

«In via tale, n.º X, il giovane Ugo Fortini, vinto da un attacco di nevrastenia, si uccideva tirandosi una revolverata al cuore. L’esame della camera e una dichiarazione del suicida, trovata vicino al cadavere, fanno escludere il delitto. Il giovane pare avesse una relazione con una dama dell’alta società. Si ritiene che la malattia, rendendogli impossibile di continuare la relazione con la dama – di cui, pure, egli era infatuato – lo abbia indotto al triste passo.»

Il giorno stesso, Alina, vinta, tornava a Ruperti… E non lo tradì mai più.